
Simone
De Fraja
L’immagine della “mortifera pestilenza” descritta dal Boccaccio che si diffondeva e propagava come fuoco a legna secca è efficace e realistica. “E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagli infermi di quella per lo comunicare insieme s’avventava a’ sani, non altrimenti che faccia il fuoco a le cose secche o unte quando molto gli sono avvicinate”. Conviene guardare indietro per capire l’oggi e il domani nonostante la scienza ed il progresso, gli istinti e le paure di tutti, così come le reazioni, sono fondamentalmente le medesime. Corrono quasi settecento anni ma dinanzi all’inconnu, ad un morbo sfuggente ed invisibile, come la peste del 1348, le soluzioni adottate oggi ed i comportamenti spesso irrazionali sono ancora simili.
Seppur nella cornice letteraria che funge da contenitore delle storie, Boccaccio è fine osservatore dell’animo umano e della società dipingendo gli elementi essenziali delle paure e dei comportamenti sociali. Nell’introduzione della Giornata Prima dell’opera dei Dieci Giorni osserva ed annota al pari di un etnologo o di un antropologo. Secondo lui, nella città del Trecento, alcuni ritenevano che “il viver moderatamente ed il guardarsi da ogni superfluitá” potesse essere di rimedio per fuggire il morbo. Pertanto “fatta lor brigata, da ogni altro separati viveano, ed in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi dove niuno infermo fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi ed ottimi vini usando ed ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare ad alcuno di morte o d’infermi alcuna novella sentire”.
Ma accanto a questa scelta “altri, in contraria opinion tratti, affermavano, il bere assai ed il godere e l’andar cantando attorno e sollazzando ed il sodisfare d’ogni cosa all’appetito, che si potesse, e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male”.
Nonostante le persone morissero e da ogni casa si trasportassero cadaveri, quando non venivano murate e sigillate le case stesse, alcuni davano sfogo alle proprie pulsioni, come se fossero le ultime cosicchè “il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto piú ciò per l’altrui case facendo, solamente che cose vi sentissero che lor venissero a grado o in piacere”.
Tuttavia tra gli eccessi cui si poteva assistere “molti altri servavano una mezzana via: non istrignendosi nelle vivande quanto i primi né nel bere e nell’altre dissoluzioni allargandosi quanto i secondi, ma a sufficienza secondo gli appetiti le cose usavano e senza rinchiudersi”.
Non trovandosi rimedio nemmeno da parte degli speziali per tamponare la circolazione del morbo alcuni tentarono di risolvere “portando nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere e chi diverse maniere di spezierie, quelle al naso ponendosi spesso, estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali odori confortare, con ciò fosse cosa che l’aere tutto paresse dal puzzo de’ morti corpi e delle ’nfermitá e delle medicine compreso e puzzolente”.
Anzi, medici e speziali rimasero disorientati di fronte al fenomeno per loro incomprensibile tanto che molti di essi cercavano salvezza isolandosi o trovavano la morte nel curare i malati. “Medici non se ne trovavano -riferisce il cronista fiorentino Marchionne di Coppo Stefani- perocché morivano come gli altri; e quelli che si trovavano, volevano smisurato prezzo in mano innanzi che intrassero nella casa, ed entratovi, toccavano il polso col viso volto adrieto, è da lungi volevano vedere l’urina con cose odorifere al naso”.
Una pandemia era una grossa opportunità per gli astrologi, che propinavano parole a “menti e orecchie assetate”, nonché facoltose, come scriveva Petrarca che non sperava in una risposta dalla cosiddetta “scienza delle stelle”. Astrologi che manipolavano i dati per farli combaciare con le loro previsioni. Altri ancora, continua il Boccaccio, risolsero alla radice il problema. Per molti, non vi poteva essere medicina più risolutiva “come il fuggir davanti agl’infermi: non curando d’alcuna cosa se non di sè, assai ed uomini e donne abbandonarono la propria cittá, le proprie case, i lor luoghi ed i lor parenti e le lor cose”.
Ecco l’idea di allontanarsi dalla città. Ritirarsi poco lontano del centro abitato, in modo sobrio ma sufficientemente ilare per scongiurare sia una malattia fisica che l’ossessione mentale è l’idea che trova, alla fine, dieci giovani tutti d’accordo. Al posto della tv o della tecnologia, fondamentali divennero gli omologhi del tempo, i libri, il “novellar” e semplici amenità ormai perdute dentro le città. E’ curioso osservare, dalla lettura dell’opera, che il tempo effettivo trascorso fuori città dai giovani è di 14 giorni, anziché 10 come il titolo dell’opera suggerisce, poiché il venerdì è dedicato alla preghiera e il sabato alla cura personale delle donne. L’isolamento fu la chiave di volta, per quei nobili giovani: “una piccola montagnetta, da ogni parte lontano alquanto alle nostre strade, piena di piante tutte di verdi fronde ripiene piacevole a riguardare; in sul colmo della quale era un palagio con bello e gran cortile nel mezzo” L’igiene fu per loro fondamentale: “tutto era spazzato, nelle camere i letti fatti, ed ogni cosa di fiori quali nella stagione si potevano avere piena e di giunchi giuncata la vegnente brigata trovò con suo non poco piacere”.