Maurizio Schoepflin
Mi piace iniziare questo articolo su Leonardo Bruni, uno degli aretini illustri effigiati da Adolfo De Carolis nella Sala dei Grandi del palazzo della Provincia, avvertendo il lettore che per scrivere queste righe mi sono giovato, tra gli altri, del bel ritratto che di lui fa Erminio Cesare Vasoli nel “Dizionario Biografico degli Italiani” Treccani. Ciò anche perché Vasoli, fiorentino di nascita, cattedratico insigne e notevole storico della filosofia medievale e rinascimentale, attivo nella seconda metà del Novecento, in gioventù ebbe modo di insegnare presso il Liceo classico Francesco Petrarca di Arezzo, rimanendo poi sempre molto legato alla nostra città. Leonardo Bruni nacque nel 1370, quattro anni prima che morisse Francesco Petrarca, e scomparve a Firenze nel 1444.
La sua permanenza ad Arezzo, dove rimase solo per qualche anno, è legata a uno dei momenti più tristi della sua vita: in quel periodo, infatti, la città cadde in mano ai francesi, suo padre fu imprigionato a Pietramala e lui, benché fosse soltanto un ragazzo, venne rinchiuso nel castello di Quarata. Anche se fu a Roma e, soprattutto, a Firenze che il Bruni raggiunse grande fama, egli non dimenticò mai la città natale, ove, peraltro, celebrò le sue nozze con una fastosa cerimonia. Annoverato tra i massimi esponenti dell’Umanesimo italiano, Leonardo si legò di profonda amicizia con Coluccio Salutati, vero astro del firmamento della cultura e della politica fiorentine dell’epoca. Il Bruni stimò grandemente Coluccio e lo considerò quasi un secondo padre, sentendosi profondamente debitore nei suoi confronti: da lui, infatti, apprese il greco e il latino, che costituirono le basi della sua eccellente erudizione, costruita sulla lettura dei classici dell’antichità.
Dopo aver lavorato per qualche tempo presso la curia pontificia, nel 1415 Bruni rientrò a Firenze, dando inizio a un’ intensa attività culturale e politica. Dal 1427 occupò la carica di cancelliere, accrescendo costantemente il proprio prestigio, tanto che si racconta che ben pochi avessero l’ardire di contraddirlo. Eugenio Garin, maestro di Vasoli e massimo studioso italiano dell’Umanesimo, lo giudica uno “scrittore di potenza non comune”, mentre Emilio Santini descrive l’eloquio bruniano nei termini seguenti: “Vigore di argomentazione, squisito tatto politico, brevità, chiarezza, non disgiunta talvolta da sottile ironia, sono i caratteri più spiccati della sua eloquenza, manifestati in molte e solenni occasioni”.
Bruni concentrò la sua attenzione sui problemi umani, e in tale contesto attribuì un valore decisivo all’uso della parola, considerandola lo strumento principe a disposizione dell’uomo di governo.
Nella Firenze del suo tempo, che appariva la naturale erede dell’Atene periclea, il grande aretino dette il meglio di sé, fino a rappresentare il modello quasi perfetto del dotto umanista che si dedica alla politica, dando luogo ad una feconda simbiosi tra vita contemplativa e vita attiva. Questa sua inclinazione gli fece avvertire una maggior vicinanza a Dante piuttosto che al proprio concittadino Petrarca, come attestano le sue seguenti considerazioni: “Dante nella vita attiva e civile fu di maggior pregio che ‘l Petrarca, perocché nell’armi per la patria e nel governo della repubblica laudabilmente si adoperò; non si può dire questa parte del Petrarca, perché ne’ in città libera stette la quale avesse a governare civilmente, ne’ in armi fu mai per la patria, la qual cosa sappiamo essere gran merito di virtù. Oltre questo Dante da esilio e povertà incalzato non abbandonò mai i suoi preclari studi, ma in tante difficoltà scrisse la sua bell’opera”.
Tuttavia è interessante notare, come fa Vasoli, che negli anni della vecchiaia il Bruni correggerà questo giudizio, come se le amarezze connesse con il proprio impegno politico lo avessero condotto a valutare positivamente il petrarchesco distacco dalla vita attiva. Alla sua morte Firenze lo salutò in modo particolarmente solenne, accogliendone le spoglie nella chiesa di Santa Croce, in una tomba scolpita da Bernardo Rossellino e recante la seguente iscrizione: “Dopo che Leonardo abbandonò questa vita la storia piange e l’eloquenza è muta e si racconta che le muse sia greche sia latine non abbiano potuto trattenere le lacrime”. Dunque, Bruni volle sempre tenere fecondamente uniti il pensiero e l’azione , il bene privato e quello pubblico: coerentemente con ciò, egli predilesse la filosofia morale e la politica, considerandole rispondenti alle esigenze della vita civile.
Questa concezione si riscontra anche nel pensiero pedagogico bruniano. Redigendo un’opera nella quale viene proposto il percorso educativo di una gentildonna, egli trascura completamente gli studi di geometria e di aritmetica, attribuendo invece massima importanza alla religione, alla morale, alla letteratura e alla storia. Davvero felici appaiono le seguenti parole di Eugenio Garin, che ben sintetizzano la figura e l’opera di questo grande aretino: “La sua passione educativa, la sua carica morale, la sua fiducia nei popoli liberi conservano intatta una grande forza suggestiva: senza libertà non si danno valori umani”.