Salvatore Mannino
Gianni Agnelli, di cui venerdì ricorreva il centenario della nascita, ce lo ricordiamo tutti: l’Avvocato con la A maiuscola che il titolo se lo era guadagnato senza aver mai dato l’esame di abilitazione, l’imprenditore-gentiluomo ("L’uomo del Rinascimento", lo ha chiamato proprio in questi giorni il suo antico amico Henry Kissinger) che specie negli ultimi anni, con la vecchiaia, si trascinava dietro un bastone sulle scale della Fiat, dello stadio in cui andava a vedere la prediletta Juve con le sue battute fulminanti (Baggio "coniglio bagnato" e Del Piero "Pinturicchio"), del Senato di cui aveva il laticlavio a vita. Colpa di una gamba che palesemente lo faceva soffrire. Pochi sanno però, che quella zoppia era anche l’effetto di un lontano incidente avvenuto in terra aretina, durante la guerra, nel comune di Foiano, in quella località Renzino, famosa anche per l’agguato ai fascisti del 17 aprile 1921 e per la violentissima reazione squadrista di cui fra poco ricorrerà un altro centenario. Poche case sparse per le campagna della Valdichiana, Renzino, ma evidentemente un nome che è un appuntamento con la storia.
La vicenda l’ha già raccontata Susanna Agnelli, la sorella più piccola di un anno (ormai non c’è più nemmeno lei), in un libro che nel 1975 fu un best-seller, "Vestivamo alla marinara". Per la Nazione l’hanno poi integrata a più riprese gli Angioli, la famiglia di mezzadri che trassero in salvo l’Avvocato, meritandone una lunga riconoscenza. Nel 1944 il futuro Signor Fiat (copyright dell’indimenticato Enzo Biagi) era un giovanotto di belle speranze, reduce dalla campagna di Russia e da quella d’Africa, un soldato di 23 anni che in Fiat contava niente (il vero padrone era ancora il nonno, il Senatore Giovanni Agnelli, coadiuvato da Vittorio Valletta) e che sperava di ricongiungersi all’esercito italiano di liberazione che stava risalendo la penisola insieme agli Alleati. Perciò da Torino intraprese insieme alla sorella il viaggio verso il fronte attestato sulla linea del Trasimeno. L’obiettivo era quello di raggiungere la villa di famiglia nei pressi di Perugia e di aspettare lì che passasse la bufera, magari cogliendo l’occasione per traversare le linee e arruolarsi, come poi accadde, nella divisione Legnano.
A Firenze il direttore della locale sede della Fiat aveva procurato loro una Topolino, ma con un autista scomodo, un maresciallo dell’esercito tedesco, sotto la cui guida cominciò l’avventuroso viaggio in terra aretina. Per strade secondarie, il terzetto era riuscito ad arrivare fino alla statale che unisce Pieve al Toppo a Foiano, il tragitto prevedeva di tagliare poi verso la 71 in direzione appunto di Perugia.
L’improvvisato autista, racconta Susanna, era stanchissimo, a più riprese Gianni gli chiese di lasciargli la guida ma niente: il tedesco rimaneva al volante. Fino a che, sopraffatto dalla fatica e dalla tensione, non saltò il bivio della provinciale di Brolio, quello che torna a Castiglion Fiorentino e alla 71, la stessa che avevano percorso i fascisti in fuga dopo l’agguato del ’21. Poche centinaia di metri dopo c’è Renzino e lì il maresciallo della Wehrmacht, colto da un colpo di sonno, perse il controllo dell’auto che finì in fosso.
"Udimmo un tonfo sordo", raccontò poi Vittorio Angioli, che quella notte del 14 giugno 1944 aveva otto anni. Dalla cascina tutti si precipitarono in strada per capire cosa fosse successo. Intanto, Gianni domandava a Susanna: "Come stai?". Bene, rispose lei, e tu? "Credo di essermi quasi staccato un piede", la replica, forse con l’aplomb che l’Avvocato non ha mai perso, neppure nei momenti più drammatici. Comunque sia, gli Angioli, erano le due di notte, aiutarono gli Agnelli ad uscire dalla macchina e ad arrivare fino al vicino ospedale, che allora come ora (ormai però è solo un ospedale di comunità) stava nel chiostro dell’antica chiesa di San Francesco.
I tempi, facile immaginarlo, erano quelli che erano, i mezzi anche. Il professor Cirillo, il chirurgo, non voleva operare: non ho gli strumenti. Suni (il nome familiare di Susanna che è stata anche ministro degli esteri nel governo Dini, a metà degli anni ’90) dovette prenderlo da parte e svelargli chi era quel giovane col piede a pezzi: l’erede dell’impero Fiat. E si può immaginare con quale apprensione il medico abbia ricucito una ferita così illustre.
Gli Angioli, raccontò Vittorio, che fosse un Agnelli lo seppero solo dopo, quando in paese cominciò a diffondersi la voce di un ricoverato così noto. Da semplici mezzadri, magari a loro il nome della Dynasty non diceva più di tanto, ma di sicuro furono in molti i foianesi colti dalla curiosità. Spartaco Mennini, futuro capo della massoneria di Palazzo Giustiniani e amico di Mitterrand, ricordò poi (adesso non c’è più neanche lui): "Un amico mi disse andiamo a vedere Agnelli e io lo accompagnai. Era un bel giovane; scuro di capelli, distinto".
La riconoscenza di Gianni gli Angioli la scoprirono a guerra finita, quando da Torino cominciarono a piovere periodicamente biglietti di auguri per le feste, accompagnati da banconote da 10 mila lire, che per l’epoca erano una bella cifra. Pochi giorni dopo l’incidente l’Avvocato era stato riportato a Firenze da uomini della Fiat. Ma il segno della notte del 14 giugno 1944 lo portò per tutta la vita. Acuito dagli effetti di un altro incidente stradale, nel 1954, alla vigilia del matrimonio con Marella Caracciolo. Una zoppia che lo rendeva più umano nel suo incedere da dio terreno, con quella camminata claudicante e quel bastone per sostenersi. Anche i super-ricchi piangono, anche i super-ricchi e i potenti hanno talvolta bisogno dell’aiuto di una famiglia di mezzadri. Sulla strada sconosciuta di una località ignota al mondo come Renzino.