
Lo squadrone aretino dei talenti. Da Vasari a Michelangelo: nasce qui il villaggio globale
Santori
Il talento degli aretini Arezzo ha il singolare primato di essere la città che ha dato i natali al maggior numero di artisti, letterati e scienziati che hanno contribuito nella maniera più originale e potente alla crescita del cosiddetto villaggio globale. Basta dare un’occhiata all’affresco del De Carolis nella Sala dei Grandi della Provincia per rendersene conto: l’artista ne ha raffigurati 29, molti dei quali di rilevanza mondiale, da Mecenate, che ha dato in ogni tempo il nome ai benefattori dell’arte e della scienza, a Guido d’Arezzo che ha cambiato una volta per tutte il modo di scrivere e fare musica; dal Petrarca che ha influenzato la lirica d’amore, ai grandi maestri della pittura Signorelli, Piero della Francesca, Michelangelo e Masaccio; da Pietro Aretino, che ha scritto la più bella tragedia del Cinquecento, l’Orazia, al Redi che ha il merito di avere applicato il metodo di Galileo alla biologia. Manca, come trentesimo, Antonio Cesti che avrebbe avuto tutte le carte in regola per figurare nell’illustre consesso come massimo autore di melodrammi nella prima metà del XVII secolo, ma all’epoca del De Carolis la musica non era tenuta in debita considerazione.
C’è naturalmente fra questi grandi anche Giorgio Vasari che ha in qualche modo definitivamente accreditato la voce dello straordinario talento degli aretini facendo dire a Michelangelo: "Giorgio, s’i’ ho nulla di buono nell’ingegno, egli è venuto dal nascere nella sottilità dell’aria del vostro paese d’Arezzo". Va osservato che il Vasari ha sempre tenuto, in entrambe le edizioni delle Vite, a qualificarsi come aretino, non ha mai chiesto la cittadinanza fiorentina, che avrebbe potuto ottenere da Cosimo I schioccando le dita, e si è costruito, arredato e affrescato la casa per la vita ad Arezzo. Anche Pietro ha sempre tenuto a firmare le sue opere come Aretino per quanto sia morto a Venezia nel 1556, colto da apoplessia nel bel mezzo di una delle fastose cene che soleva offrire agli amici, circondato da un gruppo di fanciulle, dette non a caso "le Aretine", che erano qualcosa di più che groupies perché lo servivano in tutto e per tutto. Da una ebbe due figlie e di un’altra si innamorò perdutamente, non ricambiato.
Ma queste son cose più o meno note: poco, anzi pochissimo noto è che dietro a questa ostentazione di aretinità, così diffusa nel Secolo d’Oro, c’è una lunga tradizione di eccellenza del talento degli aretini che non è patetica autocelebrazione, ma orgogliosa convinzione, con riferimento all’educazione letteraria e al suo valore. Il fatto è che ad Arezzo si attribuiva un particolare valore civico all’insegnamento della grammatica, il cui studio e la conoscenza si riconoscevano come basi del buon vivere, del pubblico interesse e addirittura del saggio governo.
Questo arroccarsi con caparbietà sugli studi umanistici a danno di quelli scientifici, va attribuito al fatto che la città, nella morsa di Firenze, si sentiva scivolare nella china della decadenza, avvertendo l’impoverimento e il declinare dei commerci (la parabola negativa dei commerci comporta il parallelo declino degli studi e delle competenze d’abaco).
Un atteggiamento del genere affiorava anche in altre città, da Pisa a Lucca a Volterra, ma ad Arezzo assume caratteristiche proprie che non hanno riscontro in Toscana: gli Aretini del primo Rinascimento erano consapevoli di poter vantare una primogenitura nel culto dell’istruzione poiché sapevano bene di essere stati nel XIII secolo i primi in Toscana a possedere un’importante università, seconda in Italia a quella di Bologna (quando ce n’erano una ventina in tutta Europa). Così Robert Black ("Studio e scuola in Arezzo durante il Medioevo e il Rinascimento", pagina 168) ha potuto parlare degli uomini letterati di Arezzo come di "una tradizione che si autorigenera".
Il fatto è che dietro all’aretinità ostentata da Pietro Aretino e dal Vasari, e in particolare dietro alla famosa e abusata frase che quest’ultimo attribuisce a Michelangelo, emerge una frase di Giovanni Villani che ne costituisce il diretto antecedente, più o meno con le medesime parole: "Il sito e l’aria di Arezzo generano sottilissimi uomini" (Cronica, I, 47). Quanto basta per rendere sospetta di essere autocelebrativa l’attribuzione che della frase il Vasari fa a Michelangelo: nella migliore delle ipotesi è possibile che Michelangelo stesso l’abbia ripresa direttamente dal Villani o che gli sia stata riferita. Certo, il numero degli aretini fra i grandi umanisti, quasi tutti fagocitati e valorizzati da Firenze, è impressionante: Bruni, Marsuppini, Roselli, Bandini, Tortelli, Griffolini, Benedetto e Francesco Accolti. Per non parlare del massimo letterato aretino del primo Cinquecento, Giovanni Pollastra che si è spinto a ricondurre la particolare predilezione aretina per le lettere fino al tempo di Virgilio: "Mecenate, de cui suona la tromba / del mantuan fu de mia patria anchora". E torna alla mente per l’ennesima volta il Carducci: "Basterebbe Arezzo a fare la gloria d’Italia".