"Il mio obiettivo era quello di arrivare al 2000 e invece taglio il traguardo anagrafico che tutti sognano, con la fortuna di avere ancora la mente lucida".
Chi parla è Gherardo Dindelli, l’ultimo partigiano rimasto in vita a Sansepolcro, che oggi compie cento anni, essendo nato l’11 gennaio 1924.
"Nato in via San Niccolò – precisa - e poi trasferito subito in via della Palazzetta, che allora era una delle strade nuove inaugurate al Borgo; vivo qui da un secolo". Ricorda ancora tutto, date comprese, il buon Gherardo, che come ogni mattina fa tappa al bar del Centro Commerciale Valtiberino, a due passi da casa, dove per le 16 di oggi gli hanno preparato un simpatico rinfresco, assieme alla figlia Patrizia, al genero Luciano e alle nipoti Sara e Anna.
"Verrà il sindaco Fabrizio Innocenti con la pergamena – afferma Dindelli – ma anche gli altri due precedenti, Daniela Frullani e Mauro Cornioli, hanno assicurato la loro presenza. Mi dispiace solo per non avere accanto Delfina, mia moglie e compagna di una vita: ci eravamo sposati l’8 settembre del 1949 ed è morta nel gennaio del 2021; abbiamo complessivamente trascorso insieme 73 anni".
Dipendente dello stabilimento Buitoni da quando aveva 17 anni fino al momento della pensione a 54, ha sempre lavorato nel reparto forno, dapprima come capoturno e poi come caporeparto, ma di Gherardo Dindelli è noto il suo passato di partigiano facente parte della squadra di Eduino Francini, che assieme ad altri otto giovani morì nell’eccidio di Villa Santinelli, a sud di Città di Castello.
"Eravamo fra coloro che diedero vita all’insurrezione di Sansepolcro il 19 marzo 1944, della quale parlò anche Radio Londra – ricorda – poi il nostro gruppo si divise: Francini e gli altri sfortunati subirono quella tremenda sorte a distanza di pochi giorni, il 27 marzo".
Tuttora, Dindelli è presente alle commemorazioni del 25 aprile e del 4 novembre e agli omaggi di rito al sacrario dei caduti slavi e ai martiri della Scheggia, ma confessa di aver vissuto tre sfide con la vita. "La prima volta mi successe al lavoro: si ruppe l’ascensore, noi tenevamo su la gabbia con un regolo e riuscimmo a trarre in salvo per questione di attimi anche un’altra persona che aveva tolto una vite con la chiave inglese. Il secondo rischio nel periodo della guerra: la mia famiglia era sfollata in una zona di collina, io e mio padre andammo a prendere due fucili da caccia con le munizioni che i tedeschi avevano perso. Li caricammo coperti su una carretta e al ritorno ci imbattemmo su un gruppo di tedeschi, che ci chiesero cosa stessimo trasportando. Rispondemmo che erano viveri per i nostri familiari e ci dissero miracolosamente di proseguire, altrimenti se avessero tolto la balla sarebbe per noi finita. Il terzo episodio negli anni ’80, durante una battuta di caccia al cinghiale: una scheggia della pallottola sparata dal collega mi aveva rotto la cinghia con la quale tenevo a tracolla il fucile, come se fosse stata una lama molto affilata. Per fortuna che ero appoggiato a una pianta: la provvidenza era di nuovo intervenuta in mio favore".