
L’hanno percorso sei milioni di sommersi e una manciata di salvati, per riprendere il titolo di un libro di Primo Levi. Era l’ultimo viaggio, quello che quasi sempre conduceva alla morte nei campi di sterminio gli ebrei d’Europa della Shoah, ancora persone quando partivano, fumo per il camino dopo l’arrivo, con un’altra citazione stavolta da Guccini. L’hanno raccontato in tanti, anche in Italia, dallo stesso Levi a Liliana Segre, è diventato il tema di film struggenti e di straordinario successo, come "La vita è bella" di Benigni, ma nessuno ancora ci aveva scritto un saggio storico specifico. Lo fa adesso, con un libro pubblicato alla vigilia del Giorno della Memoria, Camillo Brezzi, professore emerito di storia contemporanea ed ex preside della facoltà di lettere di Arezzo, studioso che qui non ha bisogno di presentazione. "L’ultimo viaggio" si intitola appunto il suo volume, edito dal "Mulino", che ripercorre con certosina attenzione quello che indubbiamente fu l’aspetto più orribile, impensabile, indicibile della seconda guerra mondiale e del nazismo imperante.
A proposito: per rimanere nell’attualità, Brezzi non nasconde il suo disappunto per l’abitudine ormai invalsa in questi tempi di Covid di paragonare la pandemia a una guerra. Equiparazione che lo storico liquida con fastidio: la guerra era un’altra cosa, dice, la guerra erano i bombardamenti, la guerra era la fame, la guerra era soprattutto lo sterminio di massa. Lo fa ricorrendo a una citazione di alcuni dati che fanno ancora impressione, 76 anni dopo la liberazione del più famigerato dei campi, Auschwitz-Birkenau: mettessimo in fila le tombe di tutti quelli che passarono per le camere a gas, riempirebbero un’autostrada da Domodossola a Berlino, collocassimo quelle tombe in un cimitero, occuperebbe per intero le Marche: una regione senza più alberi, senza più paesi e città, solo loculi.
Brezzi non racconta in prima persona, fa parlare le testimonianze di sette "salvati", alcuni meno noti come le sorelle Tatiana e Andra Bucci, altri ormai famosissimi, parte integrante ormai del discorso pubblico nazionale, da Levi alla senatrice Segre, che proprio ad Arezzo è stata protagonista in ottobre della sua ultima lezione pubblica, commovente come poche altre, da Shlomo Venezia a Piero Terracina e Sami Modiano, tornato d’attualità proprio in questi giorni come uno dei vaccinati più anziani contro il contagio.
Il libro è strutturato lungo le tappe dell’esperienza terribile che hanno raccontato, da "privilegiati" in un certo senso, perchè sono le eccezioni di un processo di disumanizzazione che conduceva di solito nemmeno alla morte, ma (lo scrisse una grande intellettuale ebrea, Hannah Arendt) alla produzione industriale di cadaveri in cui persino la morte diventava impersonale. Passiamo, dunque, sul filo delle testimonianze, dall’arresto al viaggio vero e proprio, un Golgota di oggi per dirla con Papa Wojtyla, che da cardinale di Cracovia Auschwitz l’aveva avuta nella propria diocesi e che l’espressione la adoperò per bollare icasticamente il più sinistro e terribile del campi di sterminio, e infine alla Juden Rampe, l’arrivo al campo con la selezione di chi andava subito al gas e chi invece diventava lavoratore-schiavo.
Conviene allora ripercorrerle queste tappe di un esodo nemmeno biblico (in quello almeno il popolo ebraico era animato dalla speranza) ma desolato e desolante come la disperazione, l’impotenza, la rassegnazione, la rabbia di quanti ne furono protagonisti. L’arresto ad esempio, per il quale il racconto che impressiona di più è quello di Piero Terracina: una famiglia, una normale famiglia romana, che da esule nella propria città, Roma, celebra la Pasqua ebraica. Ed è allora che qualcuno suona alla porta. La sorella che va ad aprire si trova davanti le SS. Il che pone l’attenzione su un altro capitolo scottante, poco esplorato: quanti furono i normali cittadini "ariani" che vendettero ai nazisti, per cupidigia della ricompensa o disprezzo razziale, i loro compatrioti ebrei? La retata del ghetto di Roma, il 16 ottobre 1943, ancora grida vendetta.
Il viaggio poi, l’infinita peripezia fino ad Auschwitz e agli altri campi di sterminio su treni che erano convogli di carri bestiame adattati ad esigenze subumane? Primo Levi partì da Fossoli, dove era situato il principale campo nazionale di raccolta, Liliana Segre da Milano. Anche il suo è un racconto che mette i brividi: "Eravamo giocattoli rotti e ci stavano buttando via". Seguono il progressivo intorpidimento, lo sfinimento fino all’incapacità di distinguere il giorno dalla notte, l’incertezza della meta, anche se qualcuno leggendo Katowicz sul vagone intuisce: ci portano in Polonia.
L’ultima stazione è appunto la Juden Rampe di Auschwitz: la separazione degli uomini dalle donne, dei padri dalle figlie (come la Segre), dei fratelli dalle sorelle (Modiano), la selezione, il bivio fra il gas e il lavoro da schiavi, il tatuaggio del numero: a distanza di decenni, dice Levi, è "diventato parte del mio corpo".
Proprio Modiano ha raccontato un episodio che dice più di mille parole: lui che stenta a riconosce la sorella Lucia ridotta a scheletro ma le lancia comunque un sacchetto con un tozzo di pane oltre il filo spinato. Lei glielo rilancia poco dopo con due tozzi di pane. Lucia finirà al gas, Sami si salverà per raccontare. Perchè ha ragione ancora Primo Levi: per ciascuno di quelli usciti vivi da un inferno che fa sembrare quello dantesco uno scherzo, per ognuno che ha fatto il viaggio di ritorno, ci sono milioni di dispersi nel vento.