Arezzo, 3 marzo 2019 - «Ci scusiamo del disservizio». La parte più raggelante di questa storia macabra e un po’ pirandelliana (na neppure Pirandello avrebbe saputo trovare lo humour nero per raccontarla) sta proprio nel modo in cui la Usl 1 dell’Umbria cerca di chiuderla. Hanno restituito a una madre per il funerale la gamba amputata di uno sconosciuto invece del corpicino del figlio nato morto, peggio hanno seppellito il corpicino come se fosse la gamba dello sconosciuto, mettendolo nella bara insieme al resto della salma, e lo chiamano un «disservizio», come se fosse l’appuntamento di una visita saltata all’ultimo momento.
Il linguaggio di una burocrazia disumanizzata, in cui del cuore e del dolore non resta più traccia. Già, perchè è successo tutto davvero e non è neppure la denuncia di una mamma disperata. No, è la direzione sanitaria del presidio ospedaliero Alto Tevere di Città di Castello (Perugia) che lo ammette per iscritto, anche se molti particolari restano da chiarire.
Quando una famiglia di origine rumena ma residente a Monterchi è riuscita finalmente a ottenere il permesso di seppellire il bimbo nato morto (tecnicamente ancora un feto), quando gli addetti alle pompe funebri incaricati dai genitori hanno aperto la cella frigorifera in cui il cadaverino era rimasto teoricamente conservato per quasi un anno e mezzo, hanno trovato una gamba amputata. Appartenente, come è stato accertato nel giro di un paio di giorni, a un uomo, S.F., che aveva subito l’amputazione ed è era poi morto.
E’ partita così la corsa affannosa a cercare il feto conclusa dalla scoperta, altrettanto scioccante, che era stato sepolto in una bara, appunto quella di S.F., al posto della gamba. La Usl 1 dell’Umbria dà adesso la colpa del «disservizio» all’azienda di pompe funebri che aveva seguito i funerali dell’uomo, ma la mamma si è affidata a un avvocato, Tiberio Baroni, appunto perchè vuole capire, avere giustizia per una scoperta così drammatica e capace di scuotere uno dei sentimenti più naturali, la pietà verso i morti.
Comincia tutto con quella che pare la corsa felice da Monterchi verso l’ospedale, Città di Castello, dal quale avrebbe dovuto spuntare una nuova vita. E’ la sera del 17 novembre 2016. Il parto, invece, si risolve in un aborto spontaneo: il piccolo, cui viene imposto il nome di Luca, nasce morto poco dopo mezzanotte ed è solo l’inizio di un’odissea. Perchè la mamma, Elena G., torna a casa, ma il corpicino viene trattenuto per il riscontro diagnostico.
Poi, per mesi e mesi, anche dopo l’esame necroscopico, il feto non viene restituito alla famiglia. Si arriva addirittura al 17 febbraio 2018, quando finalmente l’azienda di pompe funebri incaricata ottiene l’accesso alle celle frigorifere della camera mortuaria.
Lo shock lo si può immaginare anche dalla gelida prosa della lettera inviata dalla Usl alla signora il 20 febbraio: «E’ stato verificato...che la salma in questione non era presente, veniva subito constatato inoltre che risultava ancora presente in cella un arto amputato in data 01/02/2018 al paziente F.S....il quale era deceduto in data 08/02/2018».
Ma il peggio di quanto viene descritto nella lettera arriva due giorni dopo, il 19: «Alle 8,30 si è proceduto presso la Morgue alla verifica del contenuto della cassa contenente la salma....Dalla verifica è stato riscontrato che all’interno della suddetta cassa era stata inserita da operatore dell’agenzia funebre di F.S.. per mero errore materiale la salma del feto».
Seppellita dunque per dieci giorni insieme al cadavere di un’ altra persona. Forse perchè nessuno ha aperto le sacche in cui erano conservati i resti dell’uomo e del feto. Succede anche questo quando pietà, pure quella per i defunti, l’è morta. Ma è possibile che finisca così, con una lettera di scuse per il «disservizio»?