REDAZIONE AREZZO

Mancini, archiviato il caso che lo portò in carcere: ma ora dal Gip per bancarotta

L'ex presidente dell'Arezzo ha visto "sgonfiarsi" la vicenda Flynet ma a marzo è atteso da un'altra questione scottante, nata dal crac delle sue aziende

Piero Mancini e Shermine Dajani

Arezzo, 23 gennaio 2017 - Fu un po' l’inizio delle disgrazie giudiziarie ed anche economiche dell’allora presidente dell’Arezzo Piero Mancini: da grande imprenditore, titolare di un gruppo con centinaia di dipendenti, ad arrestato, costretto in cella per 15 giorni insieme al nipote Giovanni Cappietti, accusato di truffa, riciclaggio e persino di aver favorito un’associazione mafiosa.

Bene, a distanza di 9 anni dal giugno 2008 in cui scattarono le manette, dell’inchiesta Flynet non resta niente: definitivamente archiviata per prescrizione. Il decreto lo ha firmato il Gip Anna Maria Lo Prete su richiesta del Pm Marco Dioni, che il fascicolo se lo era ritrovato sul tavolo un paio di anni fa, dopo che un altro Gip, il fiorentino David Monti, aveva dichiarato la propria incompetenza territoriale, rispedendo gli atti ad Arezzo.

Ma, ahilui, non è ancora la fine delle traversie giudiziarie di Mancini, che nel frattempo ha dovuto affrontare il dissesto del proprio gruppo, dalla capofila Ciet a tutte le controllate, finite in amministrazione controllata. E lì c’è scappata un’altra inchiesta, stavolta per bancarotta fraudolenta, che il 2 marzo vedrà l’ormai ex presidente, la figlia Jessica e ancora il nipote Giovanni Cappietti di nuovo nell’aula di un giudice dell’udienza preliminare, stavolta Piergiorgio Ponticelli.

Inutile dire che Mancini rischia grosso, in termini di pena forse più di quanto non gli potesse costare il caso Flynet. Intanto, però, per il sanguigno patron c’è la soddisfazione di aver visto sfumare un’accusa che non solo lo portò per due settimane nel carcere di San Benedetto e per un altro mese agli arresti domiciliari nella sua villa della Rassinata, ma che gli fruttò anche, si fa per dire, una scomoda pubblicità sui giornali di mezza Italia, nonchè l’impossibilità di trattare dalla galera due affari di mercato del pallone che gli stavano particolarmente a cuore, quelli per due dei migliori giocatori di quell’Arezzo, l’attaccante Antonio Floro Flores e il difensore Andrea Ranocchia.

Il caso era quello dei numeri telefonici premium attraverso i quali passavano chiamate hard e profezie dei cartomanti. L’accusa era di averli ceduti, lucrandoci sopra, a società nelle quali aveva interessi persino un pezzo da novanta della Piovra. Di qui la contestazione dell’aggravante mafiosa fatta poi cadere dagli stessi Pm fiorentini che avevano spedito in carcere Mancini e Cappietti, Paolo Canessa e Giulio Monferini.

Restavano, al termine di una fase di indagini preliminari infinita, durata per 6 anni, la truffa e il riciclaggio, ma l’avvocato del patron Luca Fanfani, ebbe buon gioco nel maggio 2014 a sollevare l’eccezione di incompetenza: senza l’aggravante mafiosa, il processo spetta ai giudici aretini. Come infatti riconobbe il Gip Monti nel gennaio 2015. Era in sostanza la morte del fascicolo, che infatti la procura di Arezzo non ha più ripreso in mano. Adesso l’archiviazione.

Resta ben viva, invece, l’inchiesta sulla bancarotta del gruppo, per la quale Mancini, la figlia, la compagna e Cappietti hanno subito una perquisizione della Finanza, ordinata dall’allora procuratore reggente Roberto Rossi, nel gennaio 2014. In sostanza, i commissari dell’amministrazione straordinaria del gruppo avevano rilevato una serie di passaggi di denaro tra società collegate e tutte controllate dal patron che si configuravano come falso in bilancio e quindi, dinanzi all’insolvenza, come bancarotta. Allora si parlò di una ventina di milioni, adesso tocca al Gip Ponticelli decidere se mandare tutti a processo, per primo il patron. Appuntamento al 2 marzo.

di Salvatore Mannino