LUCIA BIGOZZI
Cronaca

"Noi, cresciuti sulla trincea del Covid". Centocinquantamila casi e 800 vittime. Scala: la sanità da allora è cambiata

"Non dimenticherò mai i malati stretti nel casco, la paura, le maratone: ora è una malattia come tante altre". I passi in avanti? Collaborazione tra reparti, rilancio della ricerca e degli ospedali. "Ma certe scene le ho davanti". .

"Non dimenticherò mai i malati stretti nel casco, la paura, le maratone: ora è una malattia come tante altre". I passi in avanti? Collaborazione tra reparti, rilancio della ricerca e degli ospedali. "Ma certe scene le ho davanti". .

"Non dimenticherò mai i malati stretti nel casco, la paura, le maratone: ora è una malattia come tante altre". I passi in avanti? Collaborazione tra reparti, rilancio della ricerca e degli ospedali. "Ma certe scene le ho davanti". .

Una mamma era stata la prima a subire l’attacco del "mostro": il Covid. Una mamma di Pergine, tanto brava da riuscire a non contagiare i figli ma anche lei vittima di quell’incubo che ti faceva ammalare e insieme ti invadeva di sensi di colpa. Lei, con la forza propria delle donne, alla fine uscì allo scoperto per raccontarsi e raccontare. Intorno una provincia impaurita, chiusa in casa, diffidente, con la spesa sugli zerbini e i saluti dalle finestre. E che avrebbe pagato con oltre 150 mila contagi e 840 vittime. Molto meno di altre province toscane, grazie anche alla qualità della risposta messa su dalla Asl e dalla forza di alcuni specialisti su tutti. Ma una stagione scolpita in nero nella storia nostra e del mondo. E che oggi compie cinque anni.

Nella trincea di Pneumologia, Raffaele Scala ha affrontato l’onda anomala. Non da solo, con i colleghi di Rianimazione e Malattie infettive: un tridente d’attacco che qui ha fatto la differenza.

Come è stata quella trincea? "Un’esperienza molto forte, professionalmente e umanamente. Nella prima ondata abbiamo avuto numeri abbastanza contenuti, poi l’aumento costante e la prima svolta".

Quale?

"Ci siamo resi conto che il modello infettivologico prospettato a livello nazionale, con pazienti isolati in stanzette a pressione negativa e infermieri e medici che entravano e uscivano, non dava risvolti favorevoli. Proponemmo lo schema dell’openspace: pazienti monitorati insieme e nello stesso momento. Noi eravamo già calibrati su questo modello con l’esperienza in Utip, postazioni nelle quali seguivamo contemporaneamente pazienti critici; in seguito fu adottato anche in Pronto soccorso".

L’idea di base è una ’terapia intensiva’ pneumologica?

"È uno schema di intervento che è andato affinandosi con l’esperienza di quel periodo e che ho varato nel mio reparto". Con quali effetti sui malati e sull’organizzazione?

"Notevoli. Vedevo le criticità di un sistema messo in piedi in emergenza e nelle riunioni coi colleghi ho portato avanti il concetto di allocare sotto una visione comune dell’equipe medico-infermieristica più pazienti critici".

Quante ore al giorno ha passato in reparto con l’equipe? "Nel periodo più acuto, si arrivava anche a 14-15 ore. All’inizio c’era la paura di portare l’infezione in famiglia, ma io sono sempre tornato a casa per liberare la mente da quell’incubo: facevo lunghe passeggiate".

E cosa pensava?

"Sono abituato ad affrontare le difficoltà passo dopo passo sia pur mantenendo una prospettiva globale per non farmi travolgere: ci sono stati momenti durissimi in cui sembrava non esserci via d’uscita. Pensavo a come trasmettere energia e stabilità alla mia equipe".

Il virus vi ha colti impreparati? "Sì. Ma ci siamo rimboccati le maniche sviluppando una profonda solidarietà e condivisione tra colleghi, è stato molto bello. Ricordo quando ancora non c’erano i dispositivi di protezione, indossavamo sistemi alternativi. Abbiamo lottato tutti insieme anche col supporto degli ospedali periferici, ad esempio la Fratta che ha alleggerito il carico dei ricoveri sul San Donato. Il gruppo di lavoro con infermieri, fisioterapisti, psicologi, è stato determinante".

Come il Covid ha cambiato il rapporto coi pazienti?

"È migliorato il modo di lavorare con un maggiore coinvolgimento di infermieri, fisioterapisti: nei breafing c’è una discussione molto attiva. È migliorata la comunicazione con paziente e familiare di riferimento: c’è un’informazione dedicata in un tempo specifico della giornata".

Cosa pensava guardando i suoi pazienti con i caschi?

"Cercavo di dare loro coraggio, li spronavo a reagire, stringevo le mani e nei casi più gravi che dovevano essere sedati cercavo di far sentire il conforto. Ho nella mente immagini forti".

Ne dica una.

"Persone che non volevano pronarsi e che cercavo di convincere spiegandone l’importanza per guarire; ricordo un paziente rimasto ricoverato da noi cento giorni e il giorno delle dimissioni abbiamo festeggiato il compleanno".

C’è un lato positivo del Covid?

"Può sembrare paradossale, ma c’è. Ed è la possibilità di fare ricerca, studiare un virus fino ad allora sconosciuto, individuare percorsi terapeutici nuovi ed efficaci per salvare vite. Anche su questo versante abbiamo lavorato insieme agli infettivologi e agli esperti del laboratorio di analisi, abbiamo raccolto e pubblicato dati, partecipato a molti studi. E il Covid ha portato alla scoperta della Pneumologia e dello pneumologo come perni indispensabili per la gestione delle criticità pandemiche respiratorie e non solo".

E se si verificasse una nuova pandemia, sareste pronti?

"Oggi abbiamo un vantaggio dal punto di vista organizzativo e strutturale perché i nostri ospedali sono più attrezzati e noi siamo più preparati".

Polmoniti virali e batteriche, aumentano i casi: è una nuova emergenza?

"C’è un incremento rispetto all’anno scorso quando a prevalere era l’influenza. Nel nostro reparto oltre la metà dei ricoveri sono per polmoniti, con effetti più seri in pazienti immunodepressi o con altre patologie. In aumento anche i casi tra i giovani. Fondamentale è la diagnosi da parte del medico di base e l’approfondimento tempestivo con radiografie ed esami".

E il Covid che fine ha fatto?

"Oggi rappresenta una delle infezioni virali che continuano a circolare ma con effetti meno aggressivi in soggetti senza patologie pregresse e vaccinati. Può far meno paura di un’influenza ed è una malattia che siamo riusciti a dominare".