LILETTA
Cronaca

Panno Casentino dal medioevo a Hollywood. La lana dei barocciai ha conquistato le star

L’arte dello storico tessuto, portata avanti a Stia da imprese di famiglia fin dal Trecento, è arrivata a Casa Savoia e al film con Audrey Hepburn

Panno Casentino dal medioevo a Hollywood. La lana dei barocciai ha conquistato le star

L’arte dello storico tessuto, portata avanti a Stia da imprese di famiglia fin dal Trecento, è arrivata a Casa Savoia e al film con Audrey Hepburn

Fornasari

Nel fascicolo di ottobre del 1821 nell’Antologia Vieusseux fu pubblicato il resoconto di viaggio nel Casentino di Antonio Benci, amico di Giovan Pietro Vieusseux. Tra le cose notabili della vallata, dove Benci si era recato nel luglio di quello stesso anno, un aspetto importante messo in evidenza è la natura industriosa degli abitanti di Stia, "per le molte fabbriche, specie di panni". Gli anni 1821-1832 sono, come scrive Giovanni Spadolini nella prefazione al volume "L’arte della lana in Casentino" di Pier Luigi della Bordella, sono stati quelli della trasformazione della lavorazione della lana, che lascia la dimensione di fatto domestico e familiare e diventa "un autentico fenomeno industriale" con l’inserimento dei primi macchinari.

Nella seconda metà dell’Ottocento inizia a essere documentato il panno ancora oggi celebre per la sua superficie a ricciolo e per il suo colore arancio. Questo effetto particolare fu ottenuto attraverso una macchina, detta ratinatrice, che fu importata dalla Germania in quello stesso periodo. Il ricciolo che contraddistingue il tessuto costituisce un doppio strato naturale, antifreddo e antipioggia, prima ottenuto con un finissaggio particolare con la garzatura, che sfregando la lana con la pietra estraeva il pelo, e poi con la rattinatura.

Il Panno discende da un tessuto pesante e rustico, che i mercanti fiorentini del Trecento chiamavano “panno grosso del Casentino”, realizzato con lane locali e destinato alla povera gente, costretta a vivere all’aperto, contadini e barocciai, sebbene fosse utilizzato anche per proteggere gli animali da traino. Come bene indicato nel 2009 da Tamara Boccherini in Arte in terra d’Arezzo.

Nel Novecento i documenti fanno riferimento a mantelline per cavalcatura impermeabili e adatte a difendersi, destinate ad essere commercializzate a partire dal 1890. Si racconta che Casa Savoia per riscaldare i cavalli delle scuderie reali scelse il panno Casentino. È importante ricordare che, osservando i loro animali, agli stessi contadini e barocciai venne l’idea di cucirsi i propri cappotti per proteggersi così dalle intemperie. Riciclando lo stesso tessuto, all’epoca già di colore arancio, si ebbero i primi modelli: alla robbia, colorante naturale, era stato sostituito un prodotto di sintesi non troppo azzeccato, oltre all’allume di Rocca usato come mordenzante unito, che vira verso l’arancio e non il rosso.

Si narra che proprio un cappotto così fatto suscitò grande interesse a Parigi nel 1860, quando un uomo di affari casentinese, avendo rovinato completamente il proprio a causa di un temporale tremendo, lo sostituì con uno di panno Casentino per andare ad un evento mondano. La fama fu tale che già nel 1894 il tessuto fu presentato all’Esposizione parigina.

Il cappotto assunse subito la foggia del doppio petto con martingala e collo di volpe o di lupo, elegante e perfetto per andare a caccia o a cavallo. Subito fu molto apprezzato da illustri personaggi come il conte Bettino Ricasoli, Giuseppe Verdi e Giacomo Puccini. Esso ebbe seguito anche nel mondo femminile e sempre a Firenze ebbe inizio una fiorente commercializzazione, introducendo anche il colore verde.

Chi non ricorda il paltò sbarazzino arancione a quattro bottoni indossato dalla straordinaria Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany? Il panno Casentino per quella occasione fu scelto, tagliato e confezionato nell’atelier parigino di Givenchy. In tempi più recenti anche Roberto Capucci ha apprezzato il tessuto Casentino, creando un cappotto fiabesco, molto stretto in vita e con grandi revers. Originario della prima valle dell’Arno, il panno di Casentino fu conosciuto fino dal medioevo e fino dalle origini la produzione fu sottoposta al controllo di Firenze, che temendo la concorrenza impose tasse tremende. Il panno e la valle del Casentino, unica per i suoi boschi, i suo castelli, eremi e monasteri, sono due aspetti indivisibili di una stessa storia secolare.

Nel Trecento gli abitanti del Palagio di Stia pagavano le tasse a Firenze non solo con il panno Casentino, ma anche con i panni di lana orbace, tessuta per i monaci di Camaldoli e poi dopo anche per i frati francescani della Verna. Nel Cinquecento a Stia le fasi principali della lavorazione avevano luogo nei fondi dell’attuale piazza Tanucci e la tessitura a domicilio.

I primi segni di sviluppo dell’imprenditoria si manifestarono sotto i Lorena e tra la fine del Settecento e Ottocento sorsero i lanifici Berni, destinato a chiudere presto, e Ricci. Quest’ultimo raggiunse il livello più alto nell’ultimo terzo del XIX secolo, impiegando manodopera qualificata e sostenendo anche la Società Operaia di Mutuo Soccorso, fondata nel 1838 per dare aiuto agli operai malati. Fu istituita anche una scuola obbligatoria per i figli dei dipendenti. A Pietro Ricci si deve anche l’idea di riattivare a Soci le gualchiere e le tintorie di proprietà dei camaldolesi. Anche a Soci, oggi punto di riferimento delle aziende che producono il panno, le prime testimonianze di attività laniera risalgono al XIV secolo. La storia del panno, come si è legata in passato a quella di molte famiglie tra Stia e Soci, da Giulio Lombard, ai Bocci, e al milanese Giovan Battista Bianchi, è ancora oggi legata ad imprenditori locali, le famiglie Grisolini e Savelli. Nell’Ottocento a Pratovecchio l’unico lanificio fu quello di Adriano Berti in un vecchio mulino vicino al fiume.