De Fraja
George Simenon avrebbe scritto questa storia senza troppi fronzoli, puntando sull’assurdità degli eventi e sull’inquietante mistero che continua ad avvolgere i resti di uno dei più grandi poeti della storia. Come nelle sue migliori storie, la realtà si mescola con l’incredibile, lasciando una sensazione di inquietudine e dubbio, come se qualcosa di molto importante fosse andato irrimediabilmente perduto. Petrarca morì nella notte tra il 18 e 19 luglio 1374, ad Arquà, "sul dorso di ridente colle, dodici miglia a libeccio di Padova", dirà Carlo Leoni (La vita di Petrarca, 1843).
Nel testamento dichiarava di voler affidare alla terra il proprio corpo "reso vile dalla dipartenza di quella eletta scintilla che forma la parte migliore di noi" e che ciò fosse fatto "senza alcuna pompa, ma con ogni umiltà ed abbiezione". Se inizialmente le spoglie furono ospitate nella chiesa parrocchiale di Arquà, successivamente e contro le sue volontà, furono traslate in un sarcofago in marmo su solide colonne accanto alla chiesa. Petrarca nell’arca stette in pace fino al 1630, quando una ghenga ubriaca profanò la tomba; è una vicenda nota nei particolari perché Andrea Moschetti, rinvenne il fascicolo processuale della Corte pretoria di Padova.
I fatti andarono così. La sera del 27 maggio 1630 si riunì in casa del frate domenicano Tommaso Martinelli una lieta compagnia di paesani. A parte il frate e il decano del paese, gli altri erano "persone assai corte di mente". Fu, probabilmente, proprio fra’ Martinelli che lanciò l’idea di forzare la tomba del poeta. Di notte uno dei balordi spezzò con lo scalpello uno spigolo dell’arca allargando la breccia con altri colpi. Ma gli strumenti non bastavano e qualcuno andò a prendere una torcia e una roncola. Introdotta la torcia nella breccia, apparvero i resti di Petrarca, la prima parte ad apparire era la destra: uno a uno guardarono dentro.
Il frate infilò dentro la mano, ma non arrivava a toccare lo scheletro, si fece passare la roncola e tirò verso sé grandi ossa e vari ossicini scomponendo i resti: le prime le avvolse in un panno e le tenne per sé, le altre le distribuì alla compagnia, qualche frammento cadde a terra. Poi la breccia fu chiusa alla meglio. Ma quante furono le ossa rubate e quali? Nel processo, le testimonianze alludono tutte a due grandi ossa del braccio – l’omero e l’ulna di destra – e a varie ossa minori: un ossicino grande "due grani di fava" e un "ossesello longo circa mezza quarta", forse la prima falange del dito medio. Sembra che oltre alle due ossa lunghe, a sparire fosse buona parte delle piccole ossa della mano e del polso di destra.
Non essendo Petrarca mancino, sparì il braccio che aveva redatto le immortali opere. La notizia della violazione corse: ci furono sopralluoghi e il 30 giugno l’istruttoria era terminata. Solo nel novembre 1631 il processo si avviò alla fase conclusiva, fino al 3 gennaio 1632, giorno della sentenza: dieci anni al frate Martinelli e al decano, assolti gli altri. Prima della sentenza, i sopralluoghi furono devastanti, oggi diremmo che la scena del crimine non era stata preservata ma adulterata dagli stessi periti. I periti individuarono subito il pertugio nel marmo nonchè i resti di Petrarca scombinati e sciolti nella parte destra mentre la sinistra sembrava intatta.
A questo punto il giudice prese una decisione inimmaginabile e dannosa: non si riusciva a vedere cosa ci fosse dentro e ordinò vi fosse introdotto un ragazzino, che da dentro passò le ossa all’esterno ove furono deposte su un lenzuolo e contate. Poi il giudice ordinò che "il putto", le rimettesse in ordine. In altre parole, scrive Moschetti: "Le ossa del poeta ebbero assai più a soffrire per la constatazione del furto voluta dalla legge che per il furto stesso".
Nel 1843, il conte Carlo Leoni, storico ed epigrafista, finanziò un restauro del sarcofago che il 24 maggio fu spalancato. Trenta anni dopo diresse all’anatomista Giovanni Canestrini una lettera, ai giorni nostri fondamentale all’indagine storica. Precisava che "che quando la mattina 24 maggio 1843 fu aperta la tomba, io solo presi in mano il bellissimo, ampio cranio, e lo mostrai alla folla, benchè privo del mento che la scossa del furto 1630 [aveva dislocato], quando fu estratto l’intero braccio destro. Il cranio era conservatissimo, e non dava nessun indizio di sfasciamento, Tanto che avendolo leggermente percosso colla nocca del mio dito indice rispondeva col suono della più perfetta adesione delle sue parti".
Vari reclami si sollevarono sul lavoro del Leoni, biasimato per averlo compiuto senza doverosa sorveglianza e per aver verosimilmente asportato qualcosa, compiendo una profanazione. Il 6 dicembre 1873 la tomba venne riaperta sotto la direzione di Giovanni Canestrini, anatomista di Padova, incuriosito dalla descrizione di Leoni. Il suo obiettivo era studiare il cranio del poeta con metodi scientifici avanzati, ma si sbriciolò rapidamente a contatto con l’aria, rendendo impossibile eseguire un calco in gesso o una foto ma ciò non impedì di prenderne 55 misure antropometriche.
Nel 2003, la tomba venne nuovamente aperta per un’analisi scientifica accurata, ma la sorpresa fu sconcertante: il cranio risultò appartenere a una donna vissuta tra il XII e XIII secolo.
Come è finito quel cranio nella tomba e dove si trova quello autentico? Il Museo di Padova ha ricostruito il volto del poeta utilizzando una copia del calco dimenticato nei sotterranei dell’università, corrispondente alle misure originali di Canestrini. Secondo il libro di Claudio Povolo "Il frate, il conte e l’antropologo", fu verosimilmente Carlo Leoni il colpevole del giallo. La riapertura della tomba del 1873 si rivelò un disastro: le ossa del poeta, a contatto con l’aria, iniziarono a sgretolarsi, costringendo Canestrini a operare in fretta. Come in un poliziesco, il mistero sembrava coinvolgere diversi attori, ma l’elemento più sorprendente fu il ruolo del mecenate Leoni.
Dopo la riesumazione del 1843 scomparve da Arquà: e solo 30 anni dopo scrisse a Canestrini, precisando di aver toccato il cranio di Petrarca, in perfette condizioni, forse nascondendo una sostituzione già abilmente avvenuta.