LUCIA BIGOZZI
Cronaca

"Porto la mascherina per difendermi". L’odissea di Francesco: salvo d’un soffio. Casco per 24 giorni, è ancora in cura

Uno dei casi estremi: era un imprenditore, la sua vita è stata travolta, per giorni appeso agli altri "Ringrazio di essere vivo ma ho dentro una tristezza infinita". Resta il legame con medici e infermieri.

Francesco Bologna durante il ricovero in ospedale. In alto: nella sua casa

Francesco Bologna durante il ricovero in ospedale. In alto: nella sua casa

"Un incubo, mi resterà tutta la vita". E Francesco la vita che il Covid voleva portargli via, se la tiene ben stretta. Ha rischiato grosso nelle cadute e nelle risalite di ventiquattro giorni con la testa infilata in un casco. E con quei valori che oscillavano sul filo di un altro terrore: essere intubato. "I medici non vedendo risultati consistenti, avevano avvertito la mia famiglia che se entro ventiquattro ore il quadro clinico non cambiava, mi avrebbero intubato", racconta oggi con un filo di voce a ricordare quel salto nel buio.

Cinque anni fa aveva 55 anni e un’azienda agricola da mandare avanti nelle campagne intorno a Chiusi, nella Valdichiana che lega Arezzo e Siena. Lo hanno salvato al San Donato nei giorni interminabili nel reparto di Pneumologia. E lui non dimentica. "Sono grato a medici e infermieri e tutti i professionisti che mi hanno aiutato, senza di loro non ce l’avrei mai fatta", ripete accennando un mezzo sorriso, carico sì di gratitudine ma pure infarcito di quella "tristezza interiore" che il Covid lascia dopo aver scatenato la tempesta perfetta. Francesco Bologna racconta la sua storia per "testimoniare la grande professionalità di medici e infermieri che sono stati vicini a tutti i pazienti. Nella mia camera ho visto gente stare malissimo e loro darsi da fare senza sosta. C’erano persone che rifiutavano il casco e loro con pazienza e perseveranza a spiegare che senza, sarebbero morti".

Per lui è stata "un’esperienza allucinante. Non so nemmeno io come ho fatto a reggere per così tanti giorni. Un rumore assordante e l’ossigeno che seccava la bocca. Ricordo un infermiere che vendendomi stremato, riuscì a infilare un tubicino nel casco, per consentirmi di bagnare le labbra. Avevo le braccia tumefatte dai continui prelievi ematici, ma volevo farcela, volevo tornare a casa". La voce si spezza quando ripensa al giorno in cui "quell’infermiere mi fece la barba; in tanti giorni era cresciuta e mi sentivo a disagio". Pausa.

Gesti umani fondamentali in quei momenti quando "ti ritrovi da solo, con nessuno, con la paura di quello che potrebbe accadere. Ogni giorno per me è stata una conquista. Ho visto alcune persone morire". Lui ha resistito, è convinto che a tirarlo fuori da quell’inferno sia stata anche "la forza della vita. Ho trovato dentro di me la spinta a non mollare". Il giro di boa, per Francesco, è arrivato quando "mi hanno tolto il casco e sottoposto alla maschera di ossigeno. Ero rinato, via quel rumore assordante e via il bruciore a occhi e bocca. È iniziata da lì la mia seconda vita". Poi il ritorno a casa, ma non era finita: "Ci sono voluti quasi due mesi per negativizzarmi. Ho vissuto da solo, con la mia famiglia in un’altra abitazione. Mi lasciavano il pranzo e la cena davanti alla porta. È stata dura anche questa fase perchè avevo perso il sonno, non riuscivo a dormire e mi sentivo molto debole. Avevo perso dieci chili e avevo dolori articolari". Gli stessi con cui fa i conti oggi, pure se quel tunnel attraversato è ormai lontano.

Il Covid ha lasciato una traccia profonda nella sua vita e non solo a livello fisico. "Rispetto a prima ho meno entusiasmo nel fare le cose, sono più diffidente verso le persone". Ma nella sofferenza ha imparato a prendersi cura del suo organismo. Sopratutto a difenderlo dalla minaccia dei virus, sempre in agguato. Come? "Indosso la mascherina quando vado al supermercato o in luoghi dove ci sono tante persone", dice mentre prepara un altro apericena, come cinque anni fa, con "i medici e gli infermieri del reparto che mi hanno salvato la vita".

Lucia Bigozzi