ATTILIO
Cronaca

Quei diavoli che da secoli lanciano la città La cacciata di San Francesco in mille repliche

Non solo Giotto e lo splendore di Assisi: da Montefalco a Montepulciano fino a a Narni, sullo sfondo i tetti del centro storico, le mura, le porte

Attilio

Brilli

Tutto ha inizio da una pagina della Legenda Maior di San Bonaventura da Bagnoregio, scritta fra il 1260 e il 1263, nella quale si narra che Francesco, vedendo sopra la città di Arezzo i demoni esultanti per le molte intestine discordie, ordinò al compagno, frate Silvestro, di cacciarli in nome del Signore. La scena narrata viene tradotta in pittura in uno degli scomparti del ciclo dedicato alla vita di Francesco dipinto da Giotto attorno al 1295 nella basilica superiore di Assisi. Nell’affresco è raffigurato Francesco umilmente inginocchiato dietro Silvestro il quale, in piedi davanti alla porta principale di Arezzo, esegue un esorcismo per la cacciata dei diavoli dalle ali di pipistrello. La città che vi è raffigurata, uno splendido incastro colorato di case, torri e altane, è puramente immaginaria, anche se la presenza dell’abside di una chiesa imponente fuori delle mura urbiche potrebbe fare riferimento al così detto duomo vecchio che si trovava sul colle del Pionta.

Nel complesso, l’immagine s’impone come prototipo di città medievale, mercantile e guerriera, faziosa e discorde al proprio interno, abbarbicata sul colle e compresa nel circuito delle mura che la cingono come una corazza.

Nella provincia aretina, un altro ciclo di affreschi dedicato alla vita di Francesco ricorre nelle lunette del chiostro del convento di San Francesco, a Castiglion Fiorentino, ed è opera di Pelliccione da Colle che l’ha dipinto attorno al 1630. Nella scena della Cacciata dei diavoli vediamo in primo piano, sulla sinistra, frate Silvestro che sta compiendo l’esorcismo su richiesta di Francesco, mentre sul lato destro si scorge la figura del committente, il gonfaloniere Borgundio Honesti. Dietro le figure di primo piano ci sono gruppi di duellanti un paio dei quali, in seguito alla cacciata, si abbracciano in segno di pace. Sullo sfondo si staglia la veduta di una città medievale cinta da mura.

Si tratta di una veduta che unisce elementi reali, come l’inconfondibile campanile della Pieve, ad altri di pura fantasia, come l’edificio con una grande cupola che Arezzo non ha mai avuto. All’interno del convento del Santuario della Verna, anche Gerino da Pistoia ha dipinto un tondo che raffigura l’episodio della cacciata dei diavoli.

È l’unico esempio in cui non compare la figura di Francesco, menzionato nel cartiglio sotto il tondo, ma soltanto quella di Silvestro, raffigurato a mezzo busto, di profilo, con la mano che ingiunge ai diavoli di lasciare la città. Questa viene rappresentata per sineddoche da una austera porta urbica con la scritta Arezzo.

La scena della cacciata dei diavoli ricorre nei tanti cicli dedicati alla vita del santo che si trovano nelle chiese francescane di tutta l’Italia. Se in questi affreschi si è voluto dare corpo all’immagine del prototipo di città medievale, incarnandola in quella di Arezzo, viene da chiedersi quale altra città ha il privilegio di godere, nel mondo occidentale, di una così diffusa visibilità? E soprattutto quale altra città, come Arezzo, può vantarsi di essere stata elevata a modello assoluto di insediamento urbano? E infine quale altra città può dirsi incarnazione della pace, per lascito così autorevole e conclamato?

Fra i cicli di affreschi che riportano questa scena, ci soffermeremo su due luminosi esempi umbri che si trovano in città di grande bellezza per l’arte e il paesaggio. Il primo esempio con La cacciata dei diavoli, risale al 1452 e è nella chiesa di San Francesco, oggi trasformata in museo, a Montefalco. Anche in questo caso vediamo sulla sinistra frate Silvestro, in piedi, che impone ai diavoli di lasciare la città obbedendo all’ordine di Francesco che è inginocchiato davanti a lui. Sulla destra, una città collinare, turrita, cinta da mura e con varie porte, è la rappresentazione di Arezzo.

In realtà, si tratta di una raffigurazione pittoricamente suggestiva, ma convenzionale. In alto, sulla estrema destra, si erge a dominare la città un palazzo che dovrebbe rappresentare quello aretino del Comune, o quello del Popolo. Il palazzo ha la medesima sagoma di quello eretto da Michelozzo a Montepulciano, e questo innesto potrebbe alludere al dominio fiorentino su Arezzo.

Il pittore è consapevole che la città che ha dipinto è del tutto immaginaria, infatti appone lungo le mura cittadine l’iscrizione ben visibile: Civitas Aretii. L’altro esempio è ubicato nella chiesa di San Francesco, a Narni, e è opera di Pier Antonio Mezzastris che l’esegue nella seconda metà del Quattrocento.

Mezzastris è un seguace di Benozzo Gozzoli e si distingue come piacevole narratore, amante di forme aggraziate e di colori tenui e luminosi. Egli ripropone in forme semplificate l’episodio che il maestro ha dipinto a Montefalco.

Trattati con un certo realismo, i personaggi sono raffigurati nella medesima posa di quelli di Benozzo, mentre la città con le mura e i monumenti e il circostante paesaggio appaiono immersi in un’atmosfera fiabesca che rende incantevole la narrazione.