"C’è una capanna del centro profughi di Laterina, laggù nella pianura, in cui la Regione ha promesso di realizzare un museo. Sogno di tornare lì il giorno dell’inaugurazione e dedicarlo ai miei genitori e a tutti quelli che come loro hanno vissuto lì, oltre quel filo di ferro”.
Riccardo Simoni è nato nel 1940, ha una folta barba e alle spalle una bella carriera da medico geriatra; oggi vive a San Casciano Val di Pesa, ma non ha mai dimenticato i cinque anni della sua vita, quando aveva dieci anni, trascorsi nel campo profughi giuliano – dalmati di Laterina. La sua famiglia partì da Rovigno, in Istria, nel luglio 1951. Il clima tra comunisti titini e comunisti vicini a Stalin era rovente, non c’era libertà, tra il 1943 e il 1945 in città si erano vissute due dure stagioni di infoibamenti, c’era paura e pochissima libertà. Così, migliaia di persone partirono e tra loro anche la famiglia Simoni.
"Il destino ci spinse a Laterina, nel campo profughi ex lager durante la seconda guerra mondiale. Era una pianura con tante baracche con oltre duemila persone. Una di queste era adibita a scuola elementare, un’altra per una chiesetta, una per la direzione e poi tanti ricoveri in fila per le famiglie come la nostra. Erano divise da fili di ferro con appese delle coperte, con piccole stufette e letti a castello militari. L’unico gabinetto, alla turca, stava all’aperto. Ricevevamo un sussidio di circa 100 lire a testa al giorno”. Erano impoveriti dal destino ma preparati e determinati gli istriani, con la sete di libertà e di ricostruirsi una vita. “Il rapporto con gli abitanti del posto non era negativo, anzi, ho ottimi ricordi. La differenza la faceva il filo di ferro, noi dentro al campo, loro fuori. Per loro la nostra sembrava una detenzione, per noi invece era l’embrione della libertà, quella vera”. In fondo la felicità è un sentimento soggettivo e loro a Laterina, nella semplicità più estrema, non hanno mai pianto. “A Laterina non ricordo di aver mai versato una lacrima, ma solo sorriso, ci sentivamo liberi come mai eravamo stati e in grado di provare a costruire una vita nuova nonostante i dolori dell’esistenza”.
La famiglia Simoni se ne andò dopo quattro anni a Firenze, in un appartamento Ina Casa. Riccardo terminò gli studi e divenne medico. È tornato a Laterina una sola volta, dopo quarant’anni. “Osservando le baracche abbandonate mi commossi pensando al profumo della nostra libertà. Oggi sono profondamente arrabbiato al pensiero che la nostra storia non la conosca nessuno, che nessuno parli dei profughi istriani e la tendenza è quella di non coltivare l’amore per la storia, in generale. Quanta amarezza.
I nostri ragazzi avrebbero un’estrema necessità di sapere cos’è avvenuto nel corso del ‘900, ma a qualcuno forse fa comodo seppellire”. Già, lui che di seppellimenti se ne intende. In quella valle, oltre quel filo di ferro, a Laterina da qualche parte ha seppellito il cuore.
Filippo Boni