BoniLa fossa era pronta, larga e profonda abbastanza per contenere i corpi di coloro che l’avevano scavata. Tre nubi scure coprivano il sole morente nel tramonto del 10 luglio 1944, alle propaggini dei boschi di Selva Grossa, vicino a Civitella della Chiana. Davanti una mitraglia, dietro l’abisso.
I tredici uomini arrestati poco prima nella zona erano in piedi, in fila, sudati, terrorizzati, fissavano i soldati tedeschi di fronte a loro per capire che intenzioni avessero e quando l’ufficiale, che guardava continuamente l’orologio, chiese ad un soldato di piazzare la mitragliatrice contro di loro, l’incubo si materializzò in un istante. Otello Tavarnesi aveva ventitré anni.
Troppo pochi per morire ma abbastanza per masticare qualche parola di tedesco. Era tornato a casa dalla campagna di Russia; i suoi piedi nelle steppe ghiacciate del nord a temperature proibitive non avevano retto e si erano congelati. Aveva creduto che l’appuntamento con la morte fosse arrivato precocemente, nella tundra orientale, ma un bravo medico di un ospedale militare italiano lo aveva salvato e lo aveva fatto rientrare a casa appena ristabilitosi.
Neppure il tempo di tornare nelle campagne di Civitella a lavorare che la guerra aveva travolto anche l’Italia e il nazifascismo seminava sangue e terrore anche e soprattutto in provincia di Arezzo. Erano trascorsi appena undici giorni dal 29 giugno, giorno di San Pietro e Paolo, quando tra Civitella, Cornia e San Pancrazio di Bucine, i nazifascisti avevano trucidato 235 persone innocenti. Quegli uomini che avevano appena ultimato di scavare la fossa, tra cui Otello e suo padre Riccardo, in un istante capirono che sarebbero stati i prossimi. Fu un lampo.
Tre prigionieri fuggirono. "Erschieß sie! Erschieß sie!", urlò l’ufficiale. Otello capì seduta stante che stavano per essere ammazzati e sussurrò a suo padre di fare come lui quando gli avrebbe tirato la giacca. Appena il fragore della mitraglia iniziò a squarciare il silenzio, strattonò il padre, e si lasciò cadere all’indietro nella fossa, trascinando con sè il babbo senza che nessuno dei due ancora fosse stato colpito. Su di loro, a ruota, caddero i corpi di tutti gli altri. Terminata la carneficina, i soldati si affacciarono sull’orlo della buca con i mitra in mano e sventagliarono altri colpi a casaccio sui corpi.
Fu a causa di quei proiettili che il babbo di Otello, che lo abbracciava in silenzio dall’alto verso il basso, venne ferito a morte. Aveva fatto da scudo con il corpo al figlio. La sua morte del padre valse la vita del figlio. Otello avvertì un dolore lancinante alla gamba. Lo avevano colpito ma non ebbe modo di muoversi e di capire nient‘altro perchè i soldati iniziarono a ricoprire la fossa di terra. Otello era in fondo. Sotto ai cadaveri, alla terra, seppellito con il padre. Trascorsero decine di minuti nel buio, sepolto vivo tra il fango, il sangue e i morti. Quando fu sicuro che i tedeschi se ne fossero andati, riuscì a spostarsi, a scavare con le mani la terra fresca e ad estrarre la testa. Fuori, ormai, era quasi buio.
Sentì il sangue sgorgare copiosamente da due enormi fori sulla gamba, si trascinò il più possibile nel bosco e iniziò a fischiare con la poca forza che gli era rimasta. Era un fischio acuto e potente, inconfondibile, quello, che tutta la sua famiglia conosceva bene, così bene che le sorelle, nascoste poco lontano, lo riconobbero e lo seguirono. Scovarono il ragazzo agonizzante, con la gamba bucata, nascosto tra le querce. Lo soccorsero e lo trascinarono via. Camminarono per chilometri nella selva, in piena notte, dalle pendici del monte Acuto fino alla via della Trove. Laggiù, trovarono riparo in una casa.
Una ragazza di nome Genny dagli occhi grandi e dai modi gentili disinfettò le ferite di Otello, gli preparò un uovo sbattuto con il vin santo e gli garantì riparo. Nei giorni successivi, la famiglia Tavarnesi continuò a nascondersi nei luoghi più disparati delle campagne di Civitella. Rientrarono a casa alla fine della settimana successiva, ma a Porta Aretina, in paese, i tedeschi avevano bruciato tutto e la loro casa era stata distrutta. Con il tempo ricostruirono la vita, sacrificandosi e soffrendo le pene dell’inferno.
Incredibilmente, Otello nel dopoguerra sposò Genny, la donna che lo aveva soccorso e nel 1947 ebbe un figlio, al quale dette il nome del padre, Riccardo, morto sopra di lui, quel maledetto giorno di luglio, nella fossa. Morì dopo una lunga malattia nel 1972, Otello. E chissà cosa avrebbe pensato in questi anni, vedendo che il suo nipote più piccolo, Andrea, proprio grazie ai valori che lui stesso aveva trasmesso alla famiglia, sarebbe divenuto sindaco di Civitella.
E ottanta anni dopo quel tragico giorno, quel nipote che non ha mai conosciuto, nato sette anni dopo la sua morte, sarebbe riuscito a portare il Presidente della Repubblica proprio a onorare i caduti del suo paese. Quel sindaco non sarebbe mai nato, se Otello in quel crepuscolo di sangue fosse morto in fondo alla fossa. Perché insieme a lui, quel giorno di luglio, era sopravvissuta anche la speranza.