PIER LODOVICO
Cronaca

San Jacopo, fontane, mura e nomi antichi Quando la città cancella le sue memorie

Tour tra le impronte della storia negate. La chiesa abbattuta e senza una targa ricordo, il bastione di Corten, i marmi romani usati al cimitero

Pier Lodovico

Rupi

Il più antico riscontro della rimozione di impronte della storia di Arezzo risale ad una lettera del 1506, alcuni aretini scrivono alla Repubblica fiorentina, lamentando la distruzione delle epigrafi romane di marmo, per utilizzarle alla produzione di calcina. Purtroppo, i rilievi montuosi intorno alla città sono costituiti da macigno siliceo e argille scagliose mentre sono assenti le rocce calcaree, necessarie per ottenere la calcina. Venuta meno la dipendenza da Roma che ci riforniva del cemento pozzolanico, per qualsiasi opera muraria occorre un legante, che, ad Arezzo, si può ricavare solo con i marmi delle rovine romane. Così, Arezzo perde ogni vestigia in marmo o in travertino di quel periodo e si potranno salvare solo le statue in bronzo, come la Chimera, la Minerva, o l’Arringatore.

Molti anni dopo, nel febbraio 1880, l’Ispettore dell’Ufficio degli Scavi di Antichità Emilio Marcucci, scrive alla Direzione Generale di Roma riferendo che, "per tirar su gli edifici della nuova piazza dedicata a Guido Monaco si utilizzano le rovine di costruzioni romane affioranti dal fossato che circonda la Fortezza". Marcucci riferisce inoltre che insieme "sono emersi, e subito fracassati, dei pavimenti a piccoli mattoni per ritto e a losanghe di marmo bianco e piccoli cubetti di marmo nero". Alla fine della lettera Marcucci informa di aver chiesto al proprietario del fondo, conte Vittorio Fossombroni, di interrompere questo vandalismo, trasferendo gli operai in altro fondo.

Nel maggio 1880, Fossombroni ha già spostato gli operai a nord della città. Ma qui.. "fu subito scoperta e subito distrutta una porzione delle mura di cinta dell’antica città, opera romana" Nello stesso tempo, vicino alla Fortezza viene distrutto un baluardo medioevale. Dovendosi inoltre procedere all’ampliamento del cimitero, "apparvero i resti dell’antico Teatro romano di cui furono distrutte le gradinate e le mura perimetrali", i cui rivestimenti saranno riutilizzati per le parti marmoree del Camposanto. Il conte Vittorio Fossombroni muore lasciando la Fortezza al Comune. Pochi anni dopo il fossato che circonda la Fortezza viene cancellato, ricoprendo il canale con il terreno scavato all’esterno. In questa operazione di scavi e riempimenti vengono fuori rilevanti resti archeologici, subito demoliti “per la poca importanza dell’opera e l’impaccio che la sua conservazione avrebbe portato al riordinamento”, come assicura Del Moro, dell’Ufficio degli scavi di antichità.

La casa in testata tra Corso Italia e via della Crocina, adesso via Verdi, è scampata dai bombardamenti. Su questa testata si appoggia una antica fonte, gli aretini la chiamano “La Fontina. Nel 1949 è in corso la “ricostruzione” di questo edificio e il Soprintendente Guglielmo Maetzke, scrive che “durante i lavori gli scavi hanno incontrato una importante area archeologica, scoprendo vari frammenti di rilievi e sculture in terracotta….. un esame anche superficiale dei frammenti trovati dimostra che la maggioranza faceva parte di un unico complesso decorativo di un tempio etrusco.... e poiché circa la datazione siamo intorno al 480 avanti Cristo, vengono ad essere il più antico documento archeologico di Arezzo. Con la “ricostruzione”, la testata di 4 metri, si dilata a oltre 20 e l’antica fonte scompare.

Dagli scavi per la nuova sede del Monte dei Paschi viene fuori, invece, un canale regolarmente piantito in pietra e rivestito a filaretto, databile nel primo secolo avanti Cristo, destinato ad assicurare l’acqua per modellare l’argilla agli artigiani dei vasi corallini,i numerosi in quella zona. Il canale viene ricoperto senza lasciare nessuna impronta della sua presenza.

Nel 1968 inizia la demolizione della Chiesa di San Jacopo "per regolarizzare la piazza". Costruita almeno nel 1216, come attesta l’iscrizione della campana, era appartenuta ai cavalieri Gerosolimitani e fino a dieci anni prima della sua demolizione don Luigi Cecchi vi officiava messa. Il presidente degli Amici dei Monumenti, Quinto Nuti, chiede sia almeno apposta una targa a ricordo della Chiesa. Ma la targa non ci sarà. Del resto, pochi anni prima, nel rifare il pavimento del tratto di via Cavour tra piazza San Francesco e il canto dei Bacci, vengono tolti e buttati via i bulloni in acciaio, che stavano infissi nel lastricato, a indicare il tracciato antecedente l’allargamento della strada. La vicenda avrà un seguito boccaccesco, quando la nobildonna proprietaria di un palazzo nel lato sud di via Cavour, destinato all’arretramento, interpellata dal Comune sulla sua disponibilità alla demolizione di una fetta dell’edificio, darà il proprio assenso "purchè quello che gli veniva tolto davanti gli fosse rimesso didietro".

In Fortezza, il bastione del Soccorso ha due “orecchioni” simmetrici e uguali, uno intatto e l’altro parzialmente distrutto e le pietre rovinate si ritrovano probabilmente in prossimità della base. Il suo restauro è un caso di scuola: recupero delle pietre originali, eventuale integrazione delle parti mancanti con pietre simili, ma distinguibili, rimontaggio seguendo il modello dell’orecchione. Questo procedimento si chiama anastilosi. Ma in Fortezza, l’orecchione è stato ricostruito in acciaio “Corten”. Mai visto in nessuna altra struttura antica.

La testimonianza della storia, a volte, viene meno anche nelle nominazioni. Nel 1215 l’ospedale “Santa Maria sopra i ponti” ha questo nome perché costruito su alcune volte sopra il Castro, nel tratto compreso tra via Garibaldi e via Roma; e mantiene quel nome per otto secoli, anche dopo lo spostamento fuori Porta Colcitrone. Perché adesso cambiargli nome con San Donato, che con l’ospedale non c’entra nulla? Le mura della città pre-tarlatesca, che corrono lungo il limite nord di via Garibaldi, fino all’ultima guerra sostengono un terrapieno dal quale i giardini sovrastanti si affacciano sulla strada. Negli anni successivi, alcuni tratti delle mura vengono demoliti per ricavare fondi e negozi; ma nemmeno una targa indicherà quelli che furono i baluardi medioevali.

Nell’ultima guerra, per facilitare la fuga degli aretini dalla città in caso di caso di allarme aereo, fu aperta dietro San Domenico, una Porta, cui fu dato il nome di Porta Stufi, credendo di recuperare l’antica denominazione. Ma l’antica Porta in quella posizione si chiama Porta Pozzuolo. La Porta Stufi si trovava dove adesso arriva la scala mobile.

Una traversa di via Trasimeno è dedicata all’aretino Marcantonio Cesti, famoso compositore lirico di melodrammi del 1600. Come il professor Claudio Santori precisa Marcantonio è il soprannome derisorio, il vero nome è Antonio. E proprio la sua città continua a “meleggiarlo”.

Prendiamo adesso il caso più eclatante, il nome del monaco che costruisce un sistema universale di rapporti tra segni e suoni, rendendo la musica trasmissibile nello spazio e nel tempo. Nella Treccani questo personaggio lo troviamo a "Guido d’Arezzo", nell’Enciclopedia Britannica a “Guido of Arezzo”. A Roma e Milano le strade dedicate al monaco si chiamano "via Guido d’Arezzo. Perché solo Arezzo usa “Guido Monaco”? Eppure i nomi con il richiamo al paese natale sono molteplici, pensiamo a Leonardo da Vinci. E non si venga a dire che è un problema cambiare il nome, quando ci fu da sostituire il nome alla piazza del “Viva Maria, fu cambiato in un baleno.

Ma anche quest’ultima vicenda rimanda alla cancellazione delle impronte della storia. L’insorgenza aretina sarà pure ispirata e sostenuta da una cultura reazionaria e politicamente scorretta, ma è un fatto che l’armata aretina libera dai francesi Toscana e Umbria. E quando i francesi tornano, non si limitano a minare la Fortezza, ma chiudono i conti con decine di fucilazioni di chi aveva combattuto contro lo straniero invasore.