Arezzo, 29 giugno 2021 - Non aveva il diritto di vaccinarsi, anche se non ha commesso alcun reato. E’ il giudizio, non esattamente l’ideale in termini di immagine, col quale il Pm Marco Dioni chiede l’archiviazione del fascicolo sulla dose di Astrazeneca somministrata il 21 marzo ad Andrea Scanzi, il più popolare dei giornalisti aretini, influencer e opinion leader di prima grandezza nel panorama mediatico nazionale, uno che spesso si autodefinisce come il più seguito in Italia sui social, forte del suo milione di follower che però per quella dose galeotta gli ri rivoltarono contro, a lui che si considera, ed è considerato, un maestro nel girare in proprio favore il vento che spira su Facebook, Twitter e gli altri social media.
Caso chiuso, anche se Scanzi non è mai stato indagato: quello nei suoi confronti è sempre rimasto un modello 45, cioè un fascicolo senza ipotesi di reato. La bufera che ne è nata, quella che portò alla temporanea sparizione del giornalista dagli schermi di Rai Tre («Carta bianca» di Bianca Berlinguer) e la 7 (Otto e mezzo di Lilli Gruber), quella che l’ha portato a difendersi con le unghie e coi denti dalla stanza di un lussuoso relais trentino in cui era in cura, quella anche che gli è costato il rimprovero di Marco Travaglio, direttore del suo giornale, il «Fatto Quotidiano, è rimasta una tempesta mediatica, di cui qualcuno dei tanti nemici che sè è fatto negli anni per la sua penna tagliente, ha approfittato per regolare qualche conto, ma senza conseguenze giudiziarie.
L’unico reato astrattamente ipotizzabile, l’abuso d’ufficio a carico del dirigente Usl che lo indirizzò all’hub del Palaffari, avrebbe richiesto un’espressa violazione di legge o atto avente forza di legge. Ma tutte le norme che regolano la vaccinazione sono linee guida, al massimo regolamenti amministrativi.
E poi, scrive Dioni, i comportamenti non si sono mai elevati al rango del dolo, rimanendo colposi, cioè imprudenti o negligenti. Conviene comunque riassumere. Scanzi, almeno questo è il suo racconto, contatta il suo medico di famiglia e si dichiara disponibile a ricevere una dose di Astrazeneca fra quante ne avanzano dopo la giornata di iniezioni. Il dottore lo indirizza alla Usl e il direttore del distretto Evaristo Giglio, dopo qualche settimana, lo avvia al Palaffari dove avviene la vaccinazione.
A che titolo? Lo stesso giornalista avanzerà più di uno scenario: semplice volontario per le dosi in eccesso, caregiver di genitori malati, testimonial. In realtà, secondo Dioni, «sulla scorta delle linee guida e delle raccomandazioni non aveva alcun diritto di essere vaccinato, non rientrando in alcune delle categorie delle linee guida», anche se «in quel momento la situazione era particolarmente confusa».
In effetti, era il marzo difficile in cui la campagna di massa stentava ancora a decollare, specie in Toscana, coi quarantenni come Scanzi spesso vaccinati prima degli over 80 ancora in mezzo al guado e dei settantenni e sessantenni fermi al palo. Fu per questo che la confessione social del giornalista scatenò il dagli al «furbetto».
Giglio, sentito sia nell’indagine Usl che in quella della procura, riconosce di aver sbagliato, «ritenendo che appartenesse alla categoria dei caregiver», anche se la certificazione sulla quale si basò era quella di un’omonima della madre di Scanzi. Colpa non dolo. Il passato appunto, il presente è fatto di un’archivazione imminente.