
Tra guerriglia e stragi nell’aprile del terrore La ritirata tedesca e la scia di sangue nei paesi
Filippo
Boni
Dicono che il mattino del 25 aprile 1945, mentre le campane suonavano a festa e la gente ballava e gioiva per le strade, ci siano uomini e donne che non abbiano avuto la forza di alzarsi dalla sedia e di festeggiare la fine della guerra. Dicono che abbiano pianto di felicità stringendo i pugni per la rabbia. Perché per un aprile di sole e di liberazione, quello del 1945, solo un anno prima, ci fu un aprile di sangue e di notte che ferì inesorabilmente la terra di Arezzo e di cui si parla ancora troppo poco, quello del 1944.
E quegli uomini e quelle donne che non ebbero la forza di festeggiare, erano i familiari delle vittime delle stragi della primavera - estate del 1944 in provincia di Arezzo. Fu un periodo storico drammatico quello che ha segnato per sempre la storia di questo territorio. In quelle settimane, infatti, la ritirata aggressiva della Wehrmacht si faceva sempre più vicina e nella popolazione cresceva la paura e il terrore per rivendicazioni dell’esercito nazista sui civili in seguito alla riorganizzazione del movimento partigiano.
La primavera di sangue venne contraddistinta dalle azioni di sabotaggio ai danni di soldati tedeschi che si moltiplicarono ed il 12 aprile, sotto la pressione del CTLN di Firenze, si verificò la trasformazione del CPCA, in cui prevaleva un’impostazione moderata dell’organizzazione e dell’impiego delle formazioni partigiane, in Comitato Provinciale di Liberazione Nazionale (CPLN). Fu così che le forze fasciste iniziarono una serie di rastrellamenti soprattutto in Valtiberina ed in Casentino, per reclutare nuove unità per la Guardia Nazionale Repubblicana, ma queste azioni spingevano i civili ad aggregarsi ai partigiani.
Il Valdarno dal canto suo iniziò ad essere oggetto di bombardamenti alleati, in particolar modo San Giovanni, dove molte persone persero la vita ed altre rimasero ferite a causa di oltre 280 tonnellate di bombe. A causa delle azioni alleate, gran parte della popolazione che viveva nelle cittadine in riva all’Arno stabilì di sfollare nelle vicine frazioni collinari del Chianti cavrigliese, dove anche la brigata partigiana “Chiatti” si dedicò all’assistenza dei civili, soprattutto di donne e bambini.
Con loro, infatti, alcuni partigiani in quei giorni prepararono nascondigli, rifugi e si procurarono del cibo. Nel frattempo, il versante romagnolo dell’Appennino, a partire dal 30 marzo per quindici giorni circa, fece da scenario principale per tutte le forze partigiane che compirono numerosi attacchi contro i tedeschi nei pressi del passo dei Mandrioli, costringendo i mezzi a transitare dalla Consuma. Il 12 aprile il colonnello Von Heydebreck, comandante del secondo reggimento corazzato Hermann Göring, dette il via all’inizio di una grande operazione contro i partigiani del gruppo comunista “Romagna”, stanziato nella zona del monte Falterona e composto da tre brigate.
Il piano aveva inglobato anche alcune terre del Mugello dove tra l’11 e il 12 aprile furono fucilati 16 civili. Le forze tedesche, che ammontavano a circa 2000-2500 uomini si diressero verso il Falterona in tre colonne, da Stia, Ridracoli e San Godenzo, lasciando tutte dietro di sé una lunga scia di sangue. A San Martino vicino Castagno, la colonna uccise 18 civili fra donne, uomini e bambini.
Le truppe a est invece da Ridracoli distrussero il paese di San Paolo in Alpe. La numerosa compagnia partigiana della 23ª brigata Garibaldi “Pio Borri”, ebbe notevoli difficoltà a sfuggire alle rappresaglie, scappando nei boschi inseguiti, marciando di notte e nascondendosi di giorno. Il 13 aprile, sul monte Falterona, dopo aver ciccato il bersaglio per l’ennesima volta, le truppe della Wehrmacht colpirono la popolazione civile uccidendo quasi 150 persone nella frazione di Vallucciole.
I soldati entrati di buon’ora nel paese divisero uomini, donne e bambini. I primi furono costretti a trasportare casse di munizioni sul monte. Gli altri furono fucilati senza pietà neppure per i più piccoli, sbattuti addirittura sui muri con violenza. Gli uomini vennero uccisi poco dopo. Sembra che il pretesto per le azioni di rappresaglia fosse stato un episodio avvenuto il 12 aprile, quando due militari tedeschi rimasero uccisi in uno scontro a fuoco con i partigiani a Molin di Bucchio.
Quel giorno, a Vallucciole, morirono 108 persone: 43 uomini, 43 donne e 22 bambini; a Partina 29; a Moscaio 7, mentre 8 vittime furono uccise in altre comunità del Casentino. La mattina del 17 aprile, quando ormai l’azione di rappresaglia sembrava essersi placata, sui monti romagnoli del Falterona vennero catturati 17 partigiani tutti tra i 15 ed i 20 anni. Furono portati in giro per i paesi e di tempo in tempo i soldati fingevano la loro fucilazione senza mai eseguirla per aumentare la loro angoscia. La loro fine arrivò lungo il muro del cimitero di Stia.
Furono fatti voltare e quindi furono fucilati quella stessa sera insieme ad altri quattro giovani rimasti sconosciuti. Furono 289 i civili rimasti uccisi in questa azione, mentre 115 catturati. Di questi, probabilmente, solo 140 erano partigiani, gli altri erano normali civili. Nei mesi a seguire ci sarebbero stati altri morti, altre stragi, altre vittime, altro sangue innocente che avrebbe bagnato per sempre questa terra. Tremila vittime fu il prezzo che costò la liberazione di Arezzo. Per questo per un aprile di luce, ce n’è un altro di buio, che non può essere dimenticato.