Arezzo, 22 aprile 2020 - C’è una piccola rappresentanza della comunità bengalese sotto gli ombrelli e dietro le mascherine e tra loro anche il datore di lavoro (nella foto) dell’omicida. E’ il titolare della «Srithi Legatura», una ditta di pulimentatura di metalli che ha sede nel polo industriale bucinese. Assiste alle operazioni dei carabinieri e dei vigili del fuoco da lontano e commenta con i connazionali l’accaduto: «Appena mi hanno chiamato mi sono precipitato qui. Mio cognato mi ha raccontato al telefono le urla disperate del bambino che cercava di sfuggire alla furia del padre rifugiandosi al piano di sotto e di aver incontrato Billal Miah mentre scendeva le scale nudo e insanguinato».
L’imprenditore è l’avanguardia di un’etnia, quella giunta dal Bangladesh, che da diverso tempo ha piantato solide radici in Valdarno, soprattutto nel territorio a cavallo tra i comuni di Montevarchi e Bucine dove prosperano anche diverse attività produttive gestite con maestranze provenienti dal sub continente indiano. Gruppi di solito ben integrati e che quasi mai finiscono in negativo alla ribalta delle cronache.
E’ proprio lui a cercare le parole per descrivere chi è quel papà diventato all’improvviso un assassino: «E’ arrivato a Levane da un anno – spiega in un italiano incerto – dopo averne trascorsi 5 in Sicilia, a Palermo e infatti la bambina era nata lì. Viene dalla città di Comilla, a un centinaio di chilometri a sud est dalla capitale Dacca, e fin da quando lo abbiamo assunto si era dimostrato sempre una brava persona. Non mi sarei mai immaginato che sarebbe stato capace di fare una cosa del genere».
Insomma, un fulmine a ciel sereno per chi credeva di conoscerlo, seppure non frequentandolo al di fuori dell’ambiente lavorativo, tanto da non riuscire a ricordare i nomi della bimba barbaramente trucidata e del fratellino scampato alla furia omicida. La famiglia viveva nella villetta di via Togliatti, un edificio nuovo dal rivestimento a mattoncini.
«Mio cognato - prosegue - gli aveva affittato – uno degli appartamenti della palazzina, quello ricavato nella mansarda e sembrava che tutto filasse liscio». Poi ci si è messo il coronavirus e la fabbrica da metà marzo è stata chiusa a causa del lockdown per il Covid – 19 con la conseguenza della cassa integrazione per tutti i dipendenti.
Interviene qualcun altro e spunta un particolare sulla salute dell’uomo che trova subito conferme tra i presenti: «Negli ultimi 15 giorni diceva di accusare forti mal di testa. Sembra che gli avessero trovato la pressione alta e per questo aveva anche avvertito il medico di famiglia. Continuava a dire di provare dolore. Certo è che neppure una malattia può giustificare un gesto così terribile». Si può pensare ad una tragedia esplosa per una condizione economica difficile o acuita dalla convivenza forzata? E’ questa l’ipotesi che prende sempre più piede.