Marco
Vichi
Elia era sardo. Nato nel 1887, dopo il diploma era emigrato in continente, a Milano, per studiare ingegneria, contro il volere di suo padre e con grande dolore di sua madre. Si era iscritto all’università e riusciva a pagarsi gli studi a costo di mille sacrifici. Per mantenersi vendeva dispense ricopiate a mano durante notti insonni, ma anche collezioni di farfalle che andava a cercare nei fine settimana nella campagna che si stendeva oltre la periferia di Milano. Per orgoglio non aveva mai chiesto un centesimo a suo padre, che a dire il vero avrebbe potuto aiutarlo. Dormiva in un seminterrato umido, mangiava poco, in inverno soffriva il freddo, aveva un solo cappotto usato e logoro che aveva comprato a Milano con i pochi spiccioli che si era portato da casa. Ma studiava e studiava, sperando di costruirsi un futuro migliore. Ci credeva davvero, doveva crederci, altrimenti sarebbe crollato. Sapeva di essere dentro una lunga galleria buia, ma cercava sempre di vedere laggiù in fondo la luce che lo avrebbe liberato dalla miseria.
Un sabato mattina di primavera, mentre stava passeggiando per Milano sotto un piacevole sole, davanti ai suoi occhi si verificò un incidente che avrebbe potuto rivelarsi una tragedia: un tram investì in pieno un uomo, che però rimase miracolosamente illeso. Immediatamente gli venne in mente un’idea. Era sicuro che un incidente del genere, con quel lieto fine, dovesse per forza avere a che fare con il destino. Anche il fatto che lui avesse assistito a quel miracolo doveva avere un significato. Tirò fuori carta e matita, e scrisse il numero di targa del tram, il numero della linea, il giorno e l’ora dell’incidente. Continuò a camminare, lasciandosi alle spalle l’inevitabile trambusto di curiosi. A poco a poco la sua mente di aspirante ingegnere combinò insieme i vari numeri e ne tirò fuori cinque, compresi tra uno e novanta. Andò subito a cercare la più vicina ricevitoria del Lotto, per giocare la cinquina sulla ruota di Milano. Era una follia?
Forse sì, ma non poteva e non voleva rinunciare a quel sogno. Stava per entrare nella ricevitoria, e sulla soglia incontrò un suo vecchio amico della Sardegna. Dopo gli abbracci e un breve scambio di notizie, l’amico accennò alla ricevitoria e gli chiese se stesse andando a giocare qualche numero. Elia negò. A quei tempi a giocare al Lotto, secondo l’opinione comune, erano soprattutto i disgraziati e i poveracci che inseguivano un sogno di riscatto, e lui si vergognò di ammettere la verità. Accartocciò il foglietto in tasca e se ne andò senza giocare i cinque numeri, pensando che in fondo era impossibile che uscissero. Il sabato sera, per curiosità, ascoltò alla radio le estrazioni, e rimase impietrito: sulla ruota di Milano era uscita la cinquina che lui aveva ancora in tasca.
Fece un rapido conto, e capì che aveva gettato via un patrimonio. Rimase sveglio tutta la notte, maledicendo la propria imbecillità e meditando sulla crudeltà del destino. Ancora non sapeva che con lui il destino non sarebbe stato per niente crudele. Si laureò con 110 e lode al Regio Istituto Tecnico Superiore di Milano, e ben presto fu assunto da una grossa società che produceva valvole elettroniche. Dopo la guerra, per aver salvato a rischio della vita dei costosi macchinari dalle razzie dei nazisti in fuga, venne promosso condirettore generale della società, con ampia libertà decisionale. Mentre l’Italia si avviava verso il boom economico, ebbe la brillante idea di aprire dei negozi che vendevano valvole per televisori. Cominciarono ad arrivare nelle sue tasche fiumi di denaro. Si mise a comprare case, terreni, alberghi. Ma non riuscì mai a dimenticare la cinquina che non aveva giocato per non passare da pezzente.