
Paolo Conte, altro che ’pigrizia’ Il ritorno in pista del maestro
Firenze, 20 luglio 2023 – «C’è chi vede in me Duke Ellington e chi la pietra filosofale, magari sarà pure vero, ma io non me ne accorgo» ammette Paolo Conte. «Più che una celebrità, mi sento quello a cui un giorno Bartali disse: ‘che sarebbe ‘sta storia del mio naso triste come una salita? Ti sei mai visto la nappa che ti ritrovi?’». L’uomo del Mocambo aveva chiuso coi concerti, lasciando giù dal palco Bartali, Ellington e perfino la pietra filosofale. Poi è arrivato il via libera della Scala e ci ha ripensato, ben sapendo che qualsiasi diniego ad un’opportunità di esibirsi nell’emiciclo del Piermarini avrebbe rappresentato un utilizzo criminoso dell’avverbio «no». Ma siccome «l’appetito vien mangiando e la musica suonando» s’è poi regalato un piccolo tour che domani approda sotto la luna del MusArt Festival in Piazza della Santissima Annunziata a Firenze. - Avvocato, come ci si sente a stare sul piedistallo? «Ci hanno messo un po’ di tempo ad arrivare a questa celebrazione. Ma non so se per merito o per l’età avanzata. Sentirmi chiamare Maestro, però, mi lusinga». - Un tempo la sua musica sul palco era in giacca e cravatta, poi in smoking e infine in abiti più casual. Scelta in ossequio alla «grazia plebea» della canzone popolare o altro? «In verità, più comodo». - Dice che nella sua attività è sempre valso il principio «cherchez la musique et la paresse» (la pigrizia). Più «musique» o «paresse»? «Entrambe, ma non sempre. Ho lavorato tanto». - Delle tante vite immaginate (e raccontate) nelle canzoni, ce n'è una in particolare che avrebbe voluto vivere? «Sera dopo sera, mi sono affezionato a tanti dei miei personaggi. Di recente m’è venuto abbastanza in simpatia il protagonista di ‘Vita da sosia’, canzone in cui, per raccontare l’accoglienza ‘mas tribolante’ riservata delle frequentatrici di una casa di tolleranza ad un tizio scambiato per un comandante della guardia civil, metto assieme lingua italiana, spagnola e dialetto napoletano trasformando il tutto in una specie di zarzuela». - I fantasmi della Scala cosa le hanno lasciato? «Non li ho incontrati (si saranno nascosti)». - Da quella serata di fine febbraio nascerà un disco dal vivo? «Può darsi». - Dicendo che oggi per lei scrivere una canzone è un po’ come arrampicarsi sugli specchi si riferisce ad una mancanza di slancio o della storia giusta? «Non ricordo di aver pronunciato questa frase. O forse sì, chi lo sa?». - Molti anni fa disse che quella delle sue canzoni non è nostalgia, ma solo incapacità di leggere il presente. Conferma? «Confermo. Il presente si muove, non lo si riesce a leggere». - Le sue canzoni sono dei piccoli film. Che impressione le fa avere tra i suoi estimatori pure divi hollywoodiani come Robert De Niro, che sembra avere un debole «Onda su onda»? «Mi fa piacere, sono un ammiratore di De Niro. E poi la costruzione di un film e la costruzione di una canzone hanno molte cose in comune». - A proposito di eroi del grande schermo, rimase sorpreso sentir dire a Marcello Mastroianni che gli assomigliava? «Credo che Mastroianni semplicemente mi volesse indicare come interprete del suo personaggio in ‘Sostiene Pereira’». - Se lo ricorda il suo primo concerto? «Verso la metà degli anni Settanta nella hall di una vecchia funivia in disuso». - Il mondo della musica afroamericana l’ha avvicinato grazie allo zio Gino, quello della canzone. Quanto gli deve? «Era il più «moderno» della nostra famiglia. In lui avevo trovato un alleato alla mia passione per il Jazz». - Cosa le provoca quel vecchio Schiedmayer su cui ha scritto tanti successi? «È il mio strumento preferito, apparteneva a mio padre. Un pianoforte dolce e complice». - Se dovesse incidere su una targa il verso di un suo brano da lasciare alla posterità, quale sceglierebbe. «Così al volo, direi ‘ghibli che soffia dietro una porta chiusa’ da ‘Colleghi trascurati’». - Quello in Piazza Santissima Annunziata è l’ultimo concerto. E poi? «Poi? Ah, la paresse!».