Vichi
Non riusciva a togliersi dalla mente quel sangue. La mattina, all’alba, uomini e gatti si alzarono come fantasmi e strisciarono fuori dal capannone. Goran uscì per ultimo. Non era troppo freddo. Fece un grande respiro e restò qualche minuto a guardare la città che saliva sulle colline. Non era più abituato a vedere una città senza macerie. Più in là vide un uomo. Era enorme, e stava seduto sopra uno di quei grandi funghi di bronzo per l’attracco delle barche. L’uomo guardava lontano, l’orizzonte del mare. Aveva la stessa immobilità di quel fungo, sembrava che fosse cresciuto là sopra e che non si sarebbe mai mosso. Goran si avvicinò, gli chiese dove potesse trovare un pasto per pochi soldi. Il gigante fece una smorfia dolorosa, coi denti fuori, e scosse la testa senza rispondere. Forse era matto, o forse era il più saggio di tutti. Goran lo lasciò perdere e si avviò verso la città. Avanzava scegliendo le strade più antiche e più strette, con la sensazione di nascondersi. Passava sotto archi di pietra, lungo muri secolari, accanto a enormi gatti segnati da combattimenti di strada. Camminò per un sacco di tempo, guardandosi in torno e leggendo i nomi delle strade: via Vecchia, via della Pescheria, via del Rosario... Lentamente la città diventò sempre più rumorosa, i negozi alzavano le saracinesche, i bambini gridavano. In via della Madonna del Mare ebbe una visione: una dea camminava davanti a lui, bionda, capelli al vento, il passo leggero e sicuro. Goran accelerò il passo, ma la dea sparì dentro una macchina e se ne andò. Un’altra dea prese il suo posto, bionda anche lei. Una gonna stretta fasciava il sedere più nobile che avesse mai visto, ogni passo era tutto un gioco di onde elettriche sotto i vestiti.
La bionda aveva un sorriso che faceva soffrire i comuni mortali, ma anche lei lo abbandonò, senza dargli nemmeno il tempo di mettersi in ginocchio. Si sedette sugli scalini di una piccola chiesa. Sudava. Capì che da millenni aveva smesso di desiderare. Non qualcosa in particolare, ma tutto. Si era abituato a non avere niente e a non volere niente, come se nelle sue vene non ci fosse più sangue. Si alzò e continuò a camminare fra la gente senza più nascondersi, passando da strade larghe e attraversando piazze che si affacciavano sul mare.
Alcuni passanti frettolosi lo sfioravano con la spalla. Si sentivano le voci, moltissime voci. C’era addirittura qualcuno che rideva, e un sacco di belle mamme con i bambini. Il sole cominciò ad alzarsi sopra le case, a scaldare la pelle. Goran entrò in un quartiere dove le macchine non potevano entrare, e sentì il piccolo privilegio di non avere altro che i suoi piedi. Poi successe una cosa: passò davanti a un negozio che vendeva vestiti, per caso voltò la testa e dovette fermarsi davanti alla vetrina. Aveva visto Lei. Il sangue che aveva lasciato sui marciapiedi di Mostar tornò dentro di lui in un secondo, più caldo e più rosso di prima. "Goran, figlio mio" sentì dire dentro la testa. "Lasciami in pace, mamma." Continuava a fissare la ragazza dentro il negozio, incantato dai suoi capelli lunghi e neri, dai suoi occhi profondi e lucenti. Non era solo bellissima, era la donna che la sua immaginazione avrebbe voluto creare. Tu sei mia, pensò. Perché non poteva succedere così, all’improvviso? Lui un povero uomo solo, senza niente, sporco, con un passato di odio e di sangue, senza futuro. Lei bella come Eva, la pelle luminosa e morbida, le labbra gonfie di vita. Se lui sentiva quello che sentiva non poteva essere un caso.
C’era sempre un motivo, un disegno che i mortali non potevano decifrare. Lei andava qua e là tra gli scaffali, cercando vestiti per i clienti. Aveva fisso sulla bocca un sorriso bianco di luce, era come aprire la finestra al mattino. A un tratto Goran si accorse che nel negozio c’erano altre commesse, forse addirittura tre, ma per lui erano solo ombre. Quando lei si girava dalla sua parte, Goran fingeva di guardare i vestiti appesi in vetrina. Vestiti appesi da lei, pensava, toccati dalle sue mani. Avrebbe voluto essere quel paio di jeans, quella cerniera che lei aveva tirato su e giù, su e giù ... ziiip, ziiip, la punta delle sue dita. Tu sei mia, pensò con forza, fissando quelle mani che si muove vano in aria come pesciolini. Restò ancora per qualche minuto a guardarla attraverso il vetro, poi se ne andò. Cominciò a salire verso la collina. Pensava a lei, ma quando immaginava il suo viso vedeva due occhi cattivi. Non capiva perché.
2-continua