Luigi Fontanella è uno scrittore e critico letterario che vive a New York e Firenze. Docente alla Stony Brook Univesity di New York e direttore della rivista internazionale 'Gradiva'. I suoi ultimi libri sono 'Raccontare la poesia (1970-2020). Saggi, ricordi, testimonianze critiche ('Moretti & Vitali Ed., 2021) e 'Tre passi nel desiderio. Tre Atti Unici' (Neos Ed., 2021)
New York, 10 settembre 2021 - Scrivo a poco più di 24 ore dalla ricorrenza del ventennale dall'immane tragedia di New York e Washington, da ciò che qualche titolo di giornale ancora oggi chiama "Apocalisse". E dunque queste mie righe convulse mi sono dettate anche sotto l'incalzare delle emozioni, ancora oggi intensissime, di fronte all'inaspettato scempio di sangue e macerie che quel giorno colpirono New York, la città più affascinante e pulsante del mondo. Scrivo praticamente "in diretta"; scrivo di quello che può provare uno scrittore e intellettuale italiano che da anni lavora negli States, dunque come un "ambasciatore" della nostra cultura. Le immagini che ieri e oggi sono scorse nuovamente davanti ai miei occhi, le testimonianze che ho sentito, le telefonate che ho ricevuto da amici e conoscenti italiani e americani che, direttamente e indirettamente, ebbero familiari coinvolti in questa "apocalisse", resteranno infisse dentro di me finché vivrò. Di fronte ad esse, e di fronte alla strage crescente che vent’anni fa si andava consumando nella Grande Mela, che assumeva proporzioni paurose con il crollo delle torri gemelle ("Twin Towers") e poi di altri palazzi vicini, ecco, di fronte a tutto questo, io ho riprovato come un senso di svuotamento di energie vitali, la momentanea sensazione di un fallimento della Storia, della nostra storia occidentale, come se tutto il Buono che pure la nostra civiltà ha prodotto in tanti secoli di lavoro e di sacrifici fosse di colpo o potesse di colpo essere spazzato via dall'Odio e dalla Cecità di un Male indistinto che non aveva volto; "a faceless ennemy", come efficacemente lo definì, in un'intervista, Colin Powell. Perché di questo - almeno in questo momento in cui sto scrivendo - si tratta: l'America fu vilmente attaccata da un nemico forse ancora non del tutto smascherato.
Eppure - sembrerà un paradosso - chi vent’anni fa compì un'ecatombe umana non merita neppure di chiamarsi un "Nemico di Guerra", nel senso nobile dei due termini (in una guerra soldati combattono contro soldati). E neppure, forse, si può parlare di una vera e propria "guerra" o di un'altra "Pearl Harbor", come pure più di un giornalista ha scritto: quando nella seconda guerra mondiale i kamikaze giapponesi si votavano alla morte e con i loro aerei carichi di esplosivi andavano a infrangersi contro le navi americane, lo facevano per un ideale, e i loro velivoli s'abbattevano su corazzate, non su palazzi dove c'erano migliaia di inermi civili. Né, a mio avviso, è appropriato parlare di "guerra" (anche se a rivedere le immagini sembra di assistere a uno stato di guerra), perché gli obiettivi colpiti ieri non erano militari e non hanno indebolito gli apparati prettamente difensivi né le forze armate americane. È anche per questo che l’allora presidente Bush, nel discorso ufficiale, tenuto alla Nazione quella sera stessa dell’11 settembre 2001, parlò di "coward attack", di "vile attacco", perché chi lo subì fu solo una folla di gente inerme e innocente: impiegati, lavoratori, professionisti e turisti provenienti da tutto il mondo (Italia compresa), che non poteva difendersi. Ma mi rendo conto quanto queste considerazioni siano per così dire "superflue" di fronte ai tanti morti, ormai ridotti a polvere e ossa, che ancora giacciono sepolti sotto i detriti in tutta l'area che fino al 10 settembre di vent’anni fa era occupata dal World Trade Center, ossia il luogo più spettacolare e frequentato d'America (l'afflusso consiste(va) di 150mila persone al giorno) . Un luogo che, unitamente a Wall Street, è il centro mondiale della Finanza.
Ebbene, quel luogo, essenzialmente costituito dai due grattacieli più alti d'America, oggi è un’area sepolta nella nostra memoria; non esiste più e, con essa, è sepolta, ancora oggi, buona parte della gente che vi lavorava (circa 50mila impiegati). Quello che successe quel giorno, il più nefasto della storia americana, fu dunque un ignominioso attacco alla democrazia, alla libertà, a tutta la nostra civiltà, a tutto il nostro semplice vivere quotidiano, quello in cui ti svegli una mattina dell'11 settembre 2001, pensando di andare a lavorare, e poco dopo il tuo ufficio diventa un inferno senza ritorno. Il figlio di una mia amica che lavorava lì dentro come agente finanziario mi ha detto che egli riuscì a salvarsi scappando immediatamente, attraversando, quasi a volo, pezzi di carne umana falciati, in mezzo a fiamme, fumo e schizzi di sangue e detriti. Ritornano davanti ai miei occhi i 400 vigili del fuoco, prontamente intervenuti subito dopo il primo fendente aereo, morire seppelliti venti minuti dopo sotto il fumo e le macerie infocate del secondo grattacielo colpito, e ancora poco dopo altri volontari travolti dal crollo del primo grattacielo.
Rivedo mentalmente tanta gente fuggire all'impazzata, gli occhi sbarrati e sul volto dipinta la Morte che li aveva sfiorati. Rivedo uomini che si gettavano dalle finestre del quarantesimo o sessantesimo piano, li rivedo volare nel vuoto come manichini al vento e sbriciolarsi al suolo. E ho rivisto me, del tutto impotente di fronte a questa Strage, di fronte a questa Cieca Violenza che s'abbatteva indiscriminatamente su persone a me uguali e uguali a tanti altri. Quel giorno non seppi (se lo chiesero in tanti) se dietro tutto questo sterminio ci fosse dietro il terrorista Osama Bin Laden – come poi fu ben presto accertato. Quello che di sicuro ancora oggi posso chiedermi è come mai sistemi di difesa e meccanismi di prevenzione sofisticati come quelli che posseggono gli Stati Uniti abbiano fatto cilecca. Quel giorno la fantascienza si fece realtà; ciò che avveniristicamente aveva scritto Tom Clancy tanti anni prima in un suo romanzo si avverò atrocemente. Certo le conseguenze, anche sul piano finanziario, sarebbero state dure, ma non letali.
"Life must go on", dice la vicina di casa a Stella Dubois (sorella di Blanche), devastata dal dolore, in 'Un tram chiamato Desiderio', l'indimenticabile dramma di Tennessee Williams. E la stessa cosa disse dopo quella tragedia Colin Powell, rispondendo alla domanda di un giornalista. Ecco allora che, pur in questi momenti di tragedia storica che tocca non solo l'America ma tutti noi che crediamo nella democrazia, può e deve rinascere lo spirito di fratellanza umana, di fiducia nella capacità rigenerativa e industriosa dell'uomo, che pur di fronte alla disgrazia più atroce sa risollevarsi, sa combattere, ricostruire e riaffermare i propri valori. Una capacità che l'America ha sempre avuto in modo fermo e incrollabile, e che ancora oggi – oggi più che mai - sono sicuro riuscirà nuovamente a dimostrare.
Luigi Fontanella