
Scott Fahlman, inventore delle prime emoticon
Firenze, 19 settembre 2021 - In principio era il verbo, anzi, i verbi. Poi arrivarono le ‘emoticon’, e da quel momento – era il 19 settembre 1982 - ebbe inizio una vera e propria rivoluzione nel mostro modo di comunicare. Che ha riguardato tutti, dall’Oriente all’Occidente, o per dirla con Manzoni, “dal Manzanarre al Reno”.
Le faccine sembrano nate ieri, invece oggi spengono la bellezza di 39 candeline. La loro paternità viene attribuita al professor Scott Fahlman, che per la prima volta inviò un messaggio ad una bacheca elettronica dell’università Carnegie Mellon di Pittsburgh, in Pennsylvania, utilizzando le prime ‘faccine’ della storia. In principio erano solo due e nascevano dalla combinazione di caratteri standard presenti su una qualsiasi tastiera: due punti, un trattino, una parentesi tonda. Nella loro disarmante semplicità, servivano a distinguere i post più scherzosi :- ) da quelli più seri :- (
Quello avvenuto ad opera del professore americano, era il primo tentativo di ricreare, in un testo, le espressioni facciali legate alle emozioni. Col tempo, e soprattutto col predominio di nuovi canali comunicativi come mail e chat varie, uno degli ostacoli più evidenti era proprio quello di non poter esprimere all’interlocutore il proprio stato d’animo. Le comunicazioni virtuali, se veramente volevano ricreare un parlato molto simile a quello ‘faccia a faccia’, dovevano per forza di cose includere, ed esprimere, anche il linguaggio non verbale. Le faccine erano il ‘mezzo’ ideale per sopperire, almeno in parte, a questa mancanza: ecco spiegata la diffusione e il successo delle ‘emoticon’. Che nel mondo ipertecnologico in cui viviamo, sono chiamate non solo a interpretare digitalmente i nostri pensieri, ma anche a diventare veicolo di tutte le nostre emozioni.
Per riuscire a carpire le molte sfumature dell’animo umano, in questi anni si sono dovute evolvere e non poco. Infatti oggi utilizziamo una loro versione aggiornata, quella delle emoji (parola composta da ‘e’ che significa ‘immagine’ e ‘moji’ che in giapponese significa lettera, carattere). Queste ultime nacquero per la prima volta nel Paese del Sol Levante negli anni novanta per opera di Shigetaka Kurita, che lavorava per un’azienda di telecomunicazioni. Ne creò di diversi tipi, ispirandosi ai manga giapponesi. Grazie al successo e alla diffusione massiccia delle faccine in tutto il mondo, dal 2014 si è arrivati a dedicare loro addirittura una giornata mondiale. Il World Emoji Day, che cade il 17 luglio, nato dall’idea di Jeremy Burge, uno storico delle emoticon e fondatore di Emojipedia, sito web che raccoglie e cataloga tutte le emoji, quelle vecchie e quelle nuove che, via via, si aggiungono ogni anno.
Nelle conversazioni digitali di tutto il mondo strizzano l’occhio, sorridono, piangono. Le faccine sono diventate, soprattutto negli ultimi dieci anni, uno strumento di comunicazione che ha pervaso persino la letteratura e il cinema, e da un anno e mezzo ha descritto persino la pandemia attraverso emoji a tema: dalla siringa del vaccino di Apple a Twitter che ha sensibilizzato sul lavaggio delle mani, a Facebook che ha raffigurato un abbraccio. Quelle più amate dagli italiani vanno però sul classico: sono il bacio, seguito dalla risata con le lacrime e dal pollice alzato. I maggiori utilizzatori? Sbaglia chi crede siano i teenager: da un recente sondaggio è emerso infatti che il podio spetta alle donne tra i 35 e i 44 anni.
Ci si è interrogati anche sul corretto modo di riferirsi a loro. È più giusto dire ‘le’ emoji oppure ‘gli’ emoji? A sciogliere l’amletico dubbio sul genere maschile o femminile, è scesa in campo addirittura l’Accademia della Crusca che ha optato per il maschile. Anche la Treccani propende per questa stessa declinazione, mentre sulla rete il dibattito rimane ancora aperto. Per più di qualcuno infatti, l’accostamento con le emoticon conferisce alla parola emoji un valore femminile. E anche sull’origine storica ci sono dei dubbi: qualcuno afferma che persino Abraham Lincoln avesse inserito un emoticon nel testo di un discorso risalente al 1862. Tuttavia, riguardo a ciò, non è dato sapere con certezza se si fosse trattato di una trascrizione volontaria o di un semplice errore di battitura.
Tirando le fila del discorso, è assodato che le emoji hanno cambiato il nostro modo di comunicare. Ma lo hanno fatto in meglio o in peggio? Certamente, alla maggioranza delle persone interpellate di recente, piace inviare emoji come risposta rapida a un messaggio, perché risulta immediato e comodo. Oltre al merito di farci esprimere con maggiore facilità, alle faccine ne va riconosciuto anche un altro: quello di aver permesso a chiunque di poter comunicare al di là delle barriere linguistiche. Ai puristi invece non è mai andato troppo a genio che le faccine siano diventate parte della nostra comunicazione quotidiana, giudicando negativamente l’uso spropositato che se ne fa. Comunque sia, faccine di qualunque tipo continuano a spopolare dai dispositivi mobili e nelle mail, e non c’è giorno in cui nel mondo nonne vengono inviate a milioni.
Un linguaggio tanto semplice e universale da diventare ‘scrittura’ vera e propria. Al punto che alcuni studiosi, designer e artisti dei nostri giorni, hanno pensato bene di tradurre in emoji interi libri come Moby Dick, Pinocchio, Alice nel Paese delle Meraviglie e persino la Bibbia. Chissà cosa ne avrebbero pensato Collodi ed Herman Melville, ma anche Cicerone, Euripide, Leopardi, Shakespeare, Pasolini. Alla domanda “Emoticon: fu vera gloria?”, chissà se Dante avrebbe affidato il commento a una faccina piuttosto che a una terzina. E chissà su quale emoji, tra le tante, sarebbe ricaduta la scelta del padre della lingua italiana. Nessuno potrà mai sapere se sarebbe stato felice di rispondere o se invece, sconsolato, il Sommo Poeta avrebbe di gran lunga preferito il silenzio. Lasciando ai posteri, per dirla sempre con Manzoni, “l’ardua sentenza”.
Nasce oggi
Jeremy Irons, nato il 19 settembre 1948 a Cowes, Regno Unito. Attore e doppiatore britannico, ha vinto il premio Oscar al miglior attore nel 1991 per il film ‘Il mistero Von Bulow’. Ha detto: “Abbiamo tutti le nostre macchine del tempo. Alcune ci riportano indietro e si chiamano ricordi. Alcune ci portano avanti, e si chiamano sogni”.