Firenze, 22 settembre 2024 – Un viaggio attraverso le difficoltà dei malati non autosufficienti e delle loro famiglie, costrette a spese folli e slalom burocratici enormi per tentare di offrire un’assistenza adeguata alle persone che non riescono più a badare a sé stesse. Tristemente note, in queste ultime settimane, sono diventate le notizie relative all’affollamento delle liste d’attesa per un posto letto in Rsa dove si fatica a ricevere - in particolare in Mugello - la quota sanitaria dalla Società della salute.
Tra intrecci di competenze e sistemi incartati (letteralmente) è complicatissimo anche infilarsi nel cunicolo stretti dell’assistenza domiciliare che dovrebbe esere integrata ma che per ora fatica molto ad esserlo. Sebbene la Regione abbia dichiarato che la Toscana è al top in Italia per incremento di posti all’interno del progetto, i numeri sono ancora troppo esigui per permettere di cantare vittoria e per alleggerire la pressione sui pronto soccorso. I numeri che ballano sono importanti: in Toscana si stima che ci siano circa 100mila anziani non autosufficienti e 136mila fragili, oltre i circa 14mila ospiti delle Rsa. E’ necessaria l’assistenza sanitaria appropriata ma anche il sostegno sociale. Per i malati e per le loro famiglie. E’ un dovere.
Anziani e non autosufficienza. Le liste d’attesa per le Rsa che gonfiano, i parenti che a casa impazziscono per far curare a domicilio un paziente complesso. Ne abbiamo parlato con Niccolò Marchionni, professore emerito di Medicina interna e geriatria all’Università di Firenze, prosecutore della scuola geriatrica di Francesco Maria Antonini.
Professore, esiste una ricetta sostenibile per curare al meglio queste persone?
«In Italia oltre l’80% delle persone non autosufficienti che vivono a casa è ultra65enne, circa 2,5 milioni di anziani; e si stima che oltre un quinto degli over 65 abbia limitazioni tali da aver bisogno di assistenza personale a casa (20,1%) o in strutture residenziali (1,7%). Un approccio di cura alternativo alle Rsa – almeno per i pazienti con disabilità non ancora estrema – potrebbe essere l’assistenza domiciliare integrata (Adi) che, in Italia, prevede tre livelli di intensità crescente, commisurati al bisogno. Uso il condizionale perché il nostro Paese, purtroppo, è agli ultimi posti in Europa per disponibilità di assistenza domiciliare: intorno al 4% degli over 65, rispetto al 10% dei paesi scandinavi».
Ci aspettavamo uno scatto...
«Il tanto sperato progresso nella gestione dell’assistenza a lungo termine annunciato dalla Legge delega del gennaio 2023 – che era in accordo con il fatto che della riforma di gestione della non autosufficienza l’Italia ha fatto uno degli obiettivi Pnrr – è rimasta abbastanza incompiuta nella Legge 33 recentemente approvata: manca un coordinamento chiaro tra Regioni e governo per lo stanziamento dei fondi necessari (al momento del tutto inadeguati per raddoppiare la disponibilità di posti per l’assistenza domiciliare intergrata), e perché l’assistenza agli anziani non è divenuta un settore unitario e in grado di mettere in campo interventi integrati».
A casa di fatto il peso del costo dei badanti e l’assistenza a singhiozzo fa ricadere un peso enorme nella gestione delle persone non autosufficienti sui caregiver: servono più risorse.
«Le risorse se non ci sono si devono trovare, magari smettendo di buttare soldi pubblici in bonus vari che hanno disastrato (ulteriormente) i conti dello Stato e tagliando alcune spese sanitarie anche attraverso un maggior controllo dell’appropriatezza degli interventi. Oggi, meno del 10% della spesa sanitaria viene dedicato alla gestione della non autosufficienza, a fronte del fatto che ormai – con l’attuale aspettativa di vita, la seconda più lunga dopo il Giappone e con l’attuale denatalità – l’Italia sta per arrivare al minaccioso (per la sostenibilità del welfare) traguardo del 25% di over 65 nella popolazione generale».
In quali casi la Rsa può essere una soluzione migliore delle cure a domicilio?
«Quando la Rsa è organizzata in modo da fornire anche qualche tentativo di riabilitazione-recupero funzionale, quando ha un medico geriatra interno, quando ha fisioterapisti, oltre che infermieri e operatori sociosanitari. Ma, anche in questo caso, resta molto da fare, perché non c’è un controllo così accurato e stringente sugli standard di qualità delle strutture residenziali. E tristi fatti di cronaca su strutture lager scoperte dai carabinieri o disastrate da incendi ne danno drammatica testimonianza».
Quando comincia la terza età? E come si fa a tenere testa e corpo in forma?
«La terza età inizia quando abbiamo davanti a noi circa dieci anni di aspettativa di vita. Quindi oggi dopo i 75 anni. La raccomandazione è di mantenersi in salute con stili di vita appropriati, non isolarsi, restare curiosi, coltivare relazioni sociali e non considerare mai come inevitabile conseguenza dell’invecchiamento una riduzione di forza, una stanchezza, un’improvvisa mancanza di interessi: segnalatela subito al medico, al geriatra, perché sotto può esserci un problema rimediabile».
La vecchiaia non è una malattia… quindi?
«Quindi educhiamoci tutti ad arrivarci nel miglior stato di salute possibile, fisicamente attivi e intellettualmente vivaci e curiosi. Succederà con più successo quanto più precocemente inizieremo a metterle in pratica; anche se, proprio in questo caso, non è mai troppo tardi, come dimostrato ad esempio da studi in cui persone che hanno iniziato a fare attività fisica almeno moderata ben oltre i 65 anni di età, hanno ridotto il proprio rischio cardiovascolare in soli tre anni, rispetto a coloro che hanno continuato a essere amanti di poltrona e tv».
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