Agliana (Pistoia), 22 aprile 2020 - Ripartire da zero, dopo una carriera fatta di grandi emozioni e delusioni cocenti. Ormai da più di dieci anni, Roberto Badiani ha deciso di riallacciare i rapporti con il mondo del calcio. Partito dal Club Sportivo Firenze e forgiato ulteriormente nel vivaio del Torino, Badiani in carriera ha vestito maglie importanti come quelle di Sampdoria, Lazio e Napoli. Tanta sostanza e alcuni gol iconici, come quello che regalò alla Pistoiese la storica vittoria nel derby contro la Fiorentina nella Serie A 1980/81. Una carriera finita in modo burrascoso, che ha tenuto il suo cuore lontano dal pallone per diversi anni. Passione calcistica riaccesa improvvisamente quando ha ricevuto la chiamata dell’Aglianese per entrare nelle giovanili. Un lavoro stimolante per lui, che gli ha permesso di trasmettere ai più giovani le conoscenze calcistiche maturate in una carriera stracolma di aneddoti da ricordare.
Lei in carriera ha indossato tante maglie, tra cui quella della Lazio. Come ha vissuto il passaggio dalla Sampdoria (che lottava per la salvezza) ai biancocelesti, freschi campioni d’Italia? “È qualcosa che pochi possono capire, fu una sorta di trauma. Venivo da una società bella e sana come la Samp, in cui il direttore sportivo Colantuoni 'faceva' anche il presidente. Quando lasciai Genova per una squadra che aveva vinto lo scudetto, mi chiesi: sarò all’altezza? Un salto enorme. Il tecnico laziale Maestrelli, che mi stimava da quando giocavo nel Livorno, mi contattò e mi disse che alla prima occasione avrebbe puntato su di me, sapendo che avrei risposto positivamente: ciò mi diede coraggio. Alla Lazio trovai Martini (suo ex compagno di squadra al Livorno ndr), che mi aiutò ad inserirmi. Roma è bellissima, ma è difficile giocarci per tanti anni se non dai sempre il massimo. Se invece fai gol nel derby, vieni ricordato per sempre”.
Che ricordo ha di Maestrelli e di Heriberto Herrera, due importanti allenatori che ha avuto ad inizio carriera? “Quando arrivai alla Lazio, Maestrelli mi conosceva già molto sia come atleta che come uomo. Era una sorta di padre per tutti noi, tanto è vero che quando si ammalò partimmo male in campionato. Il suo rientro ci dette entusiasmo e alla fine ci salvammo, grazie ad un mio gol a Como. Inoltre, mi reinventò mediano nonostante fossi principalmente un tornante: avevo il compito di marcare il regista avversario e di inserirmi. Il mister sapeva che quel ruolo mi era congeniale visto che, proprio con Heriberto Herrera, lo avevo già ricoperto alla Sampdoria. Contro la Juventus marcai Capello e si parlò molto di questa mossa tattica, che aveva l’obiettivo di limitare la fonte di gioco avversaria. Herrera era molto attento alla cura della preparazione atletica: addirittura ci portava a Rapallo ad allenarci perché, secondo lui, i nostri campi di allenamento non andavano bene. Durante i lunghi viaggi in pullman, voleva che muovessimo le gambe ogni tanto per non stare troppo fermi. Ci stimolava prima delle partite e ci parlava di ogni singolo ruolo che avremmo dovuto ricoprire in campo. Per lui il gruppo era sacro e, quando doveva dire qualcosa ad un giocatore, lo faceva davanti a tutti”.
Tra i momenti indimenticabili della sua carriera c’è il gol vittoria segnato con la maglia della Pistoiese nel derby contro la Fiorentina. Che emozione è stata per lei, originario di Prato? “Un retroscena. Quando giocavo nel Livorno, il presidente mi disse che mi avevano venduto alla Fiorentina. Il giorno dopo, invece, mi dissero che era saltato tutto perché i viola cercavano più una punta che un tornante. Ci rimasi male e, da quel momento, pensai a quanto sarebbe stato bello segnare contro la Fiorentina. Nel 1980, nonostante la Lazio volesse cedermi al Vicenza, aspettai la chiamata di una squadra di Serie A e a ottobre firmai per la Pistoiese. Nella settimana precedente al derby, le radio fiorentine ci prendevano sottogamba, dando per scontato che i viola ci avrebbero fatto tre o quattro gol. Il presidente della Pistoiese Marcello Melani rispose di stare attenti e, ancora una volta, ebbe ragione. Era un grande personaggio: prese la Pistoiese, promise la Serie A e in poche stagioni e ci riuscì. Vincemmo noi 2-1, con un mio gol su assist di Rognoni: fu un’azione molto veloce, di quelle che si vedono oggi. Andai poi ad esultare alla bandierina: fu un gesto simpatico per celebrare una rete storica, non una provocazione ai fiorentini”.
Dopo la Pistoiese, ancora tre anni di carriera tra Lazio e Vigor Senigallia. Cosa la portò a lasciare così presto il calcio giocato? “Nel 1981 il mio cartellino era ancora della Lazio e, dopo le esperienze a Napoli e a Pistoia, tornai in biancoceleste. L’obiettivo era tornare in A, attraverso un mix tra giocatori di esperienza e tanti giovani. Il primo anno, con Castagner in panchina, fallimmo l’obiettivo per poi centrare la promozione nella stagione successiva. Nel frattempo era diventato presidente Chinaglia e, nell’estate dell’83, nessuno mi comunicò che non avrei fatto parte dell’organico l’anno dopo. Per me fu un duro colpo: avevo dato tanto alla Lazio e segnato contro l’Atalanta il gol che valse l’aggancio al terzo posto e la promozione. A giugno rimasi senza squadra: mi voleva l’Empoli in A, ma non si decise a concludere. Si fece avanti la Vigor Senigallia e accettai pur ripartendo dalla Serie C2. La squadra andava bene, ma la società aveva problemi economici e non ci pagava. Decisi quindi di andare via e di chiudere con il calcio giocato”.
Per tanti anni è stato lontano dal mondo del calcio. Di cosa si è occupato? “Quando smisi tornai nel mio paese, Tavola di Prato. Mio padre aveva una ditta di maglieria e confezione che gestiva con i miei fratelli e mi consigliò di entrare in quel settore. Aprii un’attività insieme a mio cognato Walter Speggiorin, anche lui ex giocatore (Vicenza, Fiorentina, Perugia ndr) che da poco aveva smesso dopo le ultime annate alla Massese. Negli anni successivi la Sangiovannese, mia prima società dopo il Club Sportivo Firenze, mi propose di diventare allenatore. Rifiutai questa offerta, perché mi dispiaceva abbandonare l’attività aperta con mio cognato. Partimmo nell’85, per poi chiudere definitivamente nel 2003”.
Ora lavora nelle giovanili dell’Aglianese. Come è nata questa opportunità? “Un mio conoscente mi propose di entrare nello staff tecnico dell’Aglianese. Ho sempre ammirato questa società e, per rientrare nel calcio, volevo un club importante. L’Aglianese aveva grossi problemi a livello di vivaio, che poi è stato affidato a Piero Marini: un grande competente di calcio. Io volevo allenare i ragazzi e, a partire dalla stagione 2007/2008, mi è stata data questa possibilità”.
Quali annate allena a livello di età e su quali aspetti si concentra maggiormente? “Io alleno i più piccoli, però se c’è bisogno capita anche che mi occupi dei ragazzi di 12/13 anni. Credo che sia importante partire dal basso e lavorare sui bambini più piccoli per poi ritrovarseli nelle categorie successive, piuttosto che prendere giovani di età superiore. Io mi occupo principalmente della parte tecnica, ma anche il lato motorio è altrettanto importante. Negli anni scorsi eravamo tre allenatori nel vivaio dell’Aglianese: da quest’anno dei professori dell’Isef ci aiutano per la parte motoria. La società cerca sempre di crescere, legandosi a club di categoria superiore. Noi siamo affiliati al Pescara, che osserva quotidianamente i nostri allenamenti e organizza degli stage per i nostri ragazzi”.
Come state affrontando l’emergenza Coronavirus a livello di allenamenti? “Abbiamo realizzato video in cui spieghiamo come allenarsi in casa o in giardino e lo abbiamo inviato ai ragazzi, che così hanno modo di muoversi e di restare in forma nonostante l’impossibilità di allenarsi tutti insieme”.