Firenze, 14 marzo 2020 - Il coronavirus sta rivoluzionando la nostra vita, i suoi ritmi e abitudini, interessa i nostri affetti e le nostre case di cui muta la quotidianità, facendoci riscoprire una lentezza inconsueta e potenzialità, valori e risorse che l’individuo e le Istituzioni si erano dimenticati di possedere. La vita frenetica e i messaggi pieni di abbreviazioni lasciano ora il posto al rapporto umano, ai dialoghi fatti di parole, anche se non guardandosi negli occhi, ma tramite i media, il telefono o il cellulare, viste le norme da seguire.
Quest’emergenza, pur nella sua gravità, ci fa sperimentare e valorizzare ogni giorno tanto di buono che avevamo perso. Abbiamo intervistato a tal proposito Padre Bernardo Gianni, abate dell’abbazia di San Miniato al Monte e figura simbolo della chiesa fiorentina, uomo di profonda umanità e cultura e di grande fede, per riflettere sull’inaspettato e difficile periodo storico che stiamo attraversando. Padre, di fronte a un evento così imprevisto, imprevedibile e così importante, quale interpretazione dobbiamo darne? Quale azione ci deve guidare?
“Come credenti la preghiera e come interpretazione quella che ci stanno offrendo le risorse scientifiche di un’epidemia causata sicuramente anche da disavvedutezza umana e forse anche un po’ sottovalutata all’inizio; non mi va però di interpretarla in una modalità, come dire, apocalittica: questo non mi sembrerebbe giusto”.
Sappiamo che Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium - testo principe del Suo pontificato - dice: "Cercare Dio nella citt" >>; secondo Lei come è possibile farlo in questa difficile situazione, dove a slanci di solidarietà si alternano individualismi, egoismi, non solo da parte degli individui ma anche degli Stati?
“Penso lo si possa fare fondamentalmente cercando di scoprire e intensificare tutto quello che in qualche misura rende percepibile, sperimentabile, visibile l’amore e la presenza di Dio, quindi in altre parole anzitutto rispettiamo sicuramente le norme che ci vengono date, lo fa la Chiesa nella sua espressione più alta che è la liturgia e lo dobbiamo fare noi come cittadini, come credenti, proprio perché - come ci dice il Papa - il Signore si nasconde anche nella città, non va cercato soltanto nella Chiesa e nei monasteri, ma anche in una convivenza civile dove ci si rispetta, ci si ama, c’è attenzione alle cose importanti della vita”.
Nella Sua vita sia di uomo che di religioso ha vissuto altre situazioni nelle quali si possono ritrovare analogie con il periodo che stiamo vivendo?
“Sinceramente no, è un’esperienza credo inedita per tutti noi, anche se abbiamo vissuto momenti difficili. Forse comparabile potrebbe essere lo scoppio del reattore a Chernobyl, nel 1986 in Ucraina. La percezione fu di essere esposti ad un rischio, a una precarietà della nostra salute che ci costrinse a comportamenti di massa inediti - stare chiusi in casa, proteggerci - anche se non vi fu la stessa odierna consapevolezza perché era un’esperienza nuova. Si percepì un rischio collettivo per la nostra salute. Quello che era un rischio remoto divenne reale in quella circostanza, divenne una tragica realtà”.
Il potere della preghiera è grandissimo. Può essere considerata preghiera anche il lavoro di tutte quelle persone come medici, infermieri, psicologi, al servizio della collettività che instancabilmente si danno contro quest’epidemia?
“Io chiamerei la preghiera l’espressione della carità, tutto ciò che scaturisce dalla preghiera come esperienza di prossimità, di aiuto, di dedizione agli altri. Forse la parola preghiera la impiegherei per quello che è: uno spazio in cui ci prendiamo del tempo per il Signore. Non sovrapporrei i due ambiti, è tutto ciò che implica vicinanza al Signore nel mistero della Fede e della Comunione. A volte si dice che anche l’amore è preghiera, è vero, ma in realtà sono ambiti diversi”.