“Signorina, può chiamarmi il dottore vero, che opera?” Elena Giacomelli , 43 anni, medico chirurgo specialista, dirigente medico del reparto di chirurgia vascolare dell'azienda ospedaliera universitaria Careggi di Firenze, di espressioni o domande come quelle se ne è sentite porre tante, spesso. Se tra i ranghi medici il gender gap tra strutturati è ancora ampio (secondo il ministero della Salute quasi l'80% dei chirurghi in Italia sono uomini, mentre le donne hanno prevalgono in generale tra i camici bianchi), anche discriminazioni e molestie tra le le corsie sono diffuse. E non arrivano solo dai colleghi.
La ricerca sulla disparità di genere
“Sono sempre stata appassionata dall'argomento gender gap perché l'ho vissuto dall'interno, quindi lo scorso anno con alcuni colleghi sensibili - perché uomini sensibili alla causa ogni tanto se ne trovano - abbiamo deciso di lanciare una indagine a livello nazionale rivolto a chi si occupa di chirurgia vascolare. Attraverso le risposte, abbiamo tirato fuori delle statistiche ed è emerso che nelle posizioni apicali le donne non ci sono (l'80% dei direttori sono maschi), che tutte vorrebbero fare le chirurghe ma che poi in realtà, se si guarda a dove passano la maggior parte del loro tempo le strutturate e le specializzande, si vede che è in ambulatorio (53,1% delle donne rispetto al 26,9% degli uomini coinvolti nel sondaggio). E quando vanno in sala invece che l'operatore fanno l'aiuto o fanno il terzo”.
Nel sondaggio ci sono dati precisi, anche per quanto riguarda la soddisfazione lavorativa e soprattutto le molestie subite, che è la parte che ha avuto più risonanza (34% contro il 10% dei colleghi). Da questa indagine è poi partito un ulteriore progetto, in collaborazione con la professoressa Lippi di Storia della medicina all'Unifi e con l'ordine dei giornalisti: “Abbiamo formulato una domanda a risposta aperta, in cui si chiedeva di raccontare un episodio in cui tutte le donne medico si sono sentite vittime del gender gap. “Mi è venuta in mente questa cosa perché parlando con le colleghe sento dei racconti che vanno dall'agghiacciante al simpatico, divertente. Ma direi più agghiaccianti . Al di là di questi episodi mi piaceva l'idea di raccogliere le parole, per cui ho creato due wordcloud , sia sulle definizioni date alle professioniste sia sulle emozioni che quegli eventi avevano suscitato in loro. Se da un lato prevale la 'signorina', nell'altra prevale la rabbia ”.
La giusta cura delle parole
Da questa seconda ricerca sono emerse frasi inquietanti, come “Cerco il chirurgo: quello maschio che opera”, “Eh ora ti sposi, poi cominci a fare figli e noi qui a coprire i tuoi turni e sgobbare ancora di più” o “Ma insomma signorina, può chiamare il dottore?”, fino alle più assurde, come “Vai a fare il sugo!" a vere e proprie molestie, “'Che guardi?! Bada che tocca pure a te' un collega maschio dopo aver strizzato le tette ad una collega donna”. Esperienze vere, vissute sulla pelle da donne che per arrivare a quel lavoro, a quel ruolo, si sono formate, hanno studiato, conseguito titoli e specializzazioni, e che si vedono sminuite e discriminate sotto ogni punto di vista, che si sentono costantemente messe in discussione. Non solo da colleghi maschi, superiori o pari grado, “ma spesso e volentieri il gender gap si manifesta coi pazienti e familiari di questi”.
Nel suo percorso di specializzazione quante volte l'hanno chiamata 'signorina' invece di dottoressa?
“In continuazione. Devo dire che non ho subito discriminazioni particolare quando ero specializzanda, se non quell'appellativo o la domanda 'Dov'è il dottore?'. C'è stato un episodio che ricordo bene, quando in sala una persona non dell'equipe ma he che lavorava lì con noi mi disse: 'Le donne non devono stare al tavolo operatorio ma starci sotto. Forse comunque ne sento più adesso, da strutturato”.
Che tipo di frase?
“Recentemente 'Voglio parlare col chirurgo, quello vero che opera' e il mese scorso io e una mia collega abbiamo detto alla moglie di un uomo che lo dovevamo operare, lei ci guarda e ci chiede: 'Ma lo operare voi due?' come se le sembrasse assurdo che due donne giovani potrebbero fare l'intervento”.
Cosa prova in questi casi?
“Prevale la rabbia, la frustrazione, il sentirsi sminuita e l'aver lottato tanto per arrivare dove sono arrivato e poi non vederlo riconosciuto. Ma fa anche da stimolo”.
E giudizi legati alla sua età? Dopotutto lei è giovane ma già in un ruolo di responsabilità, chissà quante gliene avranno dette…
"Sì, ne sento parecchi. Tipo qualche tempo fa un paziente a me ea una collega, per altro più giovane di me, c'è stato detto: 'lo operate voi due?'. Ancora un'altra volta mi hanno chiesto: 'Ma non c'è uno più anziano?'. Sono cose ho interiorizzato, spesso non ci faccio nemmeno più caso al gender gap, altre volte rispondendo.
O quando ci presentano, 'Questo è il dottor Tizio, questo il dottor Caio, lei è Elena'. E ai congressi, quando chiedono se ci sono domande dal pubblico: 'Sentiamo il dottor Tizio e poi la fanciulla in prima fila'. Perché una grandissima discriminazione di genere avviene anche nell'attività di ricerca e di presentazione, ai congressi o nei ruoli di chainman ci sono sempre più uomini”.
Oltre a queste molestie c'è anche altro?
“Le continue interruzioni quanto stai parlando con i familiari oi pazienti, che cercano sempre l'uomo oppure, se sono medici maschi, vogliono spiegarti le cose o dirle al posto tuo. O il cosiddetto manspreading , la tendenza ad 'allargarsi' degli uomini, ad occupare lo spazio altrui. Ecco io agli specializzandi dico sempre: in sala si sta come a tavola, coi gomiti chiusi”.
Quando si parla di influenza sulla vita privata, le donne si sentono più influenzate degli uomini?
“Assolutamente, noi donne in generale siamo condizionate anche socialmente verso un certo tipo di vita. Ma guardiamo ai risultati del sondaggio: la maggioranza di chi ci ha risposto sono donne senza figli. I figli li fanno gli uomini e molto probabilmente non con donne chirurgo. Un po' è anche vero che non sono diventati madri perché la maggior parte di loro erano specializzande, quindi ancora non sentivano forse nemmeno l'istinto a diventarlo. Ma certamente il peso delle aspettative e poi del carico di cura per noi è diverso”.
Cos'è la sindrome dell'ape regina, di cui parla nella ricerca?
“Un po' di autocritica va fatta: se gli uomini riescono a fare tutto, anche grazie alla forza del gruppo, domandiamoci perché noi donne non riusciamo. La sindrome dell'ape regina è un fenomeno sociale abbastanza noto: donne che hanno raggiunto posizioni apicali e che trattano peggio le altre donne, e anche fisicamente hanno acquisito tratti e atteggiamenti mascolini perché devono mettere a riparo il loro successo da ogni possibile concorrenza”.
Non c'è supporto reciproco tra lavoatrici donne?
“In generale una cosa che a me ha fatto malissimo è vedere che alla domanda 'da chi ti senti supportata nella tua vita lavorativa' una delle possibili risposte era 'nessuno' e un quarto delle donne, oltre il 24%, ha scelto quell' opzione”.
Qualcosa, in generale, nel vostro settore, sta cambiando?
«Sì, devo dire che da una parte ho la fortuna di lavorare con tante donne, perché nel tempo la presenza femminile in reparto e nel mondo della chirurgia è aumentata; dall'altra ci sono, va ammesso, colleghi uomini illuminati che ci supportano in questa battaglia per la parità. Devo dire che il disagio maggiore per me deriva dai comportamenti dei pazienti e dai familiari, non degli altri medici”.
Da dove partire per scardinare questa disuguaglianza?
“C'è bisogno di sensibilizzare non solo la popolazione, ma si deve partire dal mondo dell'educazione, dalla scuola di medicina e probabilmente anche prima”.