Firenze, 7 marzo 2021 - Due donne a confronto che, come ha sottolineato Luisa Gabbi che ha moderato l’incontro sul web, raccontano e amano raccontare storie, e con esse la vita, la realtà attraverso le parole. Dacia Maraini lo fa attraverso i suoi libri, e Agnese Pini sulle pagine de ‘La Nazione’, giornale che lei dirige. Un invito a confidare nel proprio talento, senza remore: questa l’anima del dibattito intitolato ‘Donne è ancora tempo. Essere noi stesse, senza paura” che ha preso spunto dall’episodio sanremese che ha portato alla luce un tema molo sentito e che ha acceso il dibattito in queste ore.
Le dichiarazioni di Beatrice Venezi, che ha detto: “Chiamatemi ‘direttore’. Le lotte sono altre, i nomi al femminile non risolvono nulla”. A questo proposito la direttrice Pini ha sottolineato che: “Il tema di come farci chiamare è tutt’altro che un orpello, è anche sostanza, perché ci identifica. Il nostro nome risponde alla nostra identità: scegliere come farsi chiamare è fondamentale e per le donne lo è ancora di più. Da quando dirigo La Nazione è la domanda che mi è stata fatta più spesso indistintamente da uomini e donne. E mi ha messo fin da subito nella condizione di dover riflettere molto seriamente sull’uso delle parole e sull’importanza del linguaggio per definirci: come professioniste, ma ancora prima come persone. Direttore piace alla destra. Direttora alla sinistra. L’italiano prevede la declinazione al femminile, Direttrice, ed è così che ho scelto di farmi chiamare. Anche perché ho ritenuto giusto far risaltare che questo tipo di ruolo fosse ricoperto da una persona di genere femminile. Come una donna sceglie di farsi chiamare diventa ancora oggetto di critica, di giudizio severo, di polemica, di strumentalizzazione politica. Il caso di Beatrice Venezi porta dunque ad una riflessione: se negli anni 70 le donne hanno dovuto combattere per poter disporre del proprio corpo con libertà, nel 2021 devono combattere per poter disporre del proprio nome con libertà e autonomia, e tutti i giudizi severi a cui veniamo sottoposte dimostra che questa libertà ed autonomia ancora non l’abbiamo”.
“Basta considerare la parola ‘maestro’, come direttore di musica, e ‘maestra’, che invece viene associata a chi insegna a scuola – sottolinea Dacia Maraini – per accorgersi che il femminile è sempre stato ritenuto meno prestigioso, importante, meno solido. Il maschile è invece universale: con la parola ‘uomo’ si intende l’intero genere umano, con ‘donna’ questo non avviene. C’è una discriminazione di tipo misogino nella lingua italiana. Giustamente invece noi vogliamo che ci siano delle direttrici d’orchestra riconosciute col nome al femminile”. Combattere per il proprio nome, e dunque per la propria voce, ha portato il dibattito sul libro ‘La lunga vita di Marianna Ucria’. A questo proposito la direttrice Pini ha raccontato un aneddoto, di quando “ero bambina e mio padre aveva il compito di farmi addormentare. Iniziò così a leggere ad alta voce questo libro che mi incuriosiva e appassionava moltissimo, perché si parlava di questa bambina sordomuta. Romanzo che lessi poi da adulta e che mi ha portato a riflettere sull’importanza di ascoltare per parlare ed esprimerci nel modo giusto. Ho avuto modo di interiorizzare ciò in maniera anche un po’ inconscia, da bambina, grazie a mio padre che leggeva Dacia Maraini e grazie a lei che ha scritto un capolavoro assoluto della letteratura italiana”.
Il discorso è finito sulle nuove generazioni di donne e le difficoltà che devono affrontare, soprattutto dopo il mondo ‘protetto e meritocratico’ della scuola, ossia nel mondo del lavoro: “Io dico sempre una cosa: il mondo ha bisogno di competenze. In questo periodo di globalizzazione bisogna avere una competenza, che viene da una passione – spiega Dacia Maraini – e grazie a ciò si può andare avanti nel mondo”. Riguardo poi a questo nostro tempo segnato dalla pandemia, Dacia Maraini ha ricordato di quando “nel 2006 avevo scritto un breve racconto sulla peste a Messina. Mi aveva molto impressionato lo spazio di tempo brevissimo in cui la malattia si era diffusa provocando la morte di tante persone. In questo periodo mi è tornato in mente e mi è venuta voglia di rilavorarci, ne è venuto fuori un romanzo che porta ad alcune considerazioni. Cosa accomuna l’oggi con la pandemia di allora? Non certo il punto di vista medico, dal momento che oggi abbiamo fatto tanti passi avanti a livello sanitario. Ma alcune cose sono rimaste le stesse: come la necessità di trovare il colpevole, e la paura che produce irrazionalità incredibili. Che spinge alcuni a negare la realtà: non esiste il vaccino, la malattia, non esistono i morti. Questo porta all’odio, al rancore, e l’irrazionalità porta sempre alla guerra, che nasce dall’odio, da malintesi e rabbie. Ci sono due Italie: una piuttosto consapevole e saggia, che ha capito il pericolo e sta attenta. Un’altra che non vuole accettare la realtà e punta a coinvolgere tutti in questa negazione. Ma spero e sono fiduciosa che l’Italia della consapevolezza e della saggezza prevalga”.
Si è poi toccato il tema del lockdown e delle conseguenze che questo ha avuto in particolar modo sul genere femminile: “Non è un caso che proprio le donne hanno sofferto di più tra le mura domestiche la pandemia: perdita di lavoro, sovraccarico di lavoro a casa e così via. Perché in momenti di crisi le donne pagano in maniera così importante? Perché il mondo è ancora diviso in compiti, e quando le donne hanno un lavoro, un realtà ne hanno due, perché la cura della casa, dei bambini e degli anziani è generalmente affidata a loro. E sempre più spesso si è assistito a un acuirsi delle violenze subite dagli uomini. Ogni libertà conquistata da una donna tocca e intacca dei privilegi da sempre declinati al maschile: la maggior parte degli uomini questo l’accetta, ma altri no e allora scatta la rabbia”. Un aumento di violenze e femminicidi di cui la cronaca “dà conto ogni giorno perché spesso alla richiesta di maggiore autonomia si risponde con la violenza. Ma questo non deve scoraggiarci – ha detto Agnese Pini -. Anzi dobbiamo puntare con maggior forza ad abbattere gli stereotipi, come quello profondamente ingiusto secondo cui le donne “non saprebbero fare squadra”. Le donne per millenni si sono trovati in posizioni non di potere ma di sottomissione ed è chiaro che era più difficile fare squadra. Non si fa mai squadra quando ci si spartisce la sottomissione. È più facile fare squadra quando ci si spartisce il potere, a cui le donne non hanno avuto accesso – ha sottolineato la direttrice Pini -. Il terremoto emotivo della pandemia ha travolto tutto, ha scardinato le nostre sicurezze. Abbiamo paura di ciò che non conosciamo, e ci siamo trovati davanti a qualcosa che non conoscevamo e dunque non sapevamo controllare. I giornali si sono ritrovati a raccontare la pandemia con gli stessi schemi di un tempo, che però non andavano bene. Anche i giornalisti hanno dovuto imparare come si racconta una pandemia, e abbiamo dovuto fare i conti con noi stessi e la nostra professione”. L’incontro, in occasione della Giornata Internazionale della Donna, voluto e organizzato dall’associazione culturale Primo Piano di Correggio, in collaborazione con Quotidiano Nazionale (Il Resto del Carlino, La Nazione, Il Giorno), con il patrocinio del Comune di Correggio e il contributo di Coopservice, Unipol Rental, Bett Sistemi, Cooperativa Sociale Ambra, ha avuto un video intervento di Sergio Staino, e si è concluso con un augurio: “A tutte le donne che vivono, credono, sperano in loro stesse e nelle altre donne”.
Maurizio Costanzo