FABRIZIO MORVIDUCCI
Cronaca

Esuli istriani, quelle vite perdute. "Era la nostra terra promessa, ci fecero scappare via"

Il racconto di Claudio Bronzin, 89 anni: fu costretto a fuggire da Pola a Firenze. "Non scorderò mai il ddt spruzzato su mia madre, spogliata nuda davanti a me, a Trieste"

La famiglia di Claudio Bronzin, nel tondo oggi, nell’ultima foto a Pola prima di imbarcarsi sul piroscafo per l’Italia

La famiglia di Claudio Bronzin, nel tondo oggi, nell’ultima foto a Pola prima di imbarcarsi sul piroscafo per l’Italia

Firenze, 12 febbraio 2024 – “Abbiamo scelto Firenze per un caso dovuto alla disperazione. Ma siamo grati a questa città e alla Toscana che ci ha accolti senza pregiudizi". Nel giorno del ricordo, Claudio Bronzin, 89 anni, nato a Pola, esule istriano, racconta la storia tragica di quei giorni.

Come è arrivato a Firenze?

"Era febbraio ’47. Mio padre decise di portarci via prima dell’arrivo dei titini. Pola era ancora un’enclave inglese. Raccogliemmo alcuni mobili, li portammo alla stazione ferroviaria".

E poi?

"Il ferroviere chiese a mio padre dove dovesse spedire il mobilio. Lui rispose: ‘il più lontano possibile dal confine’. Era turbato; non aveva nemmeno pensato dove potessimo andare. Il ferroviere aveva fretta, scrisse ‘Firenze’ sul modulo. E Firenze fu. Col senno di poi fu una ‘non decisione’ fortunata".

Quando decideste di lasciare Pola?

"La situazione non era semplice. Già ad aprile ‘45, alla fine della guerra, i titini per 40 giorni avevano messo a ferro e fuoco la città. Gli inglesi arrivarono a giugno ’45 (rimasero fino al settembre ’47), noi contammo i mancanti. Di 900 uomini portati via nella notte, ne tornarono solo 42. Con gli inglesi eravamo protetti e la comunità italiana era coesa. A Pola vivevano italiani da generazioni, il dialetto più diffuso era il veneto. Dicevamo: ‘Anche se diventiamo Jugoslavia cosa ci farà Tito?’".

E poi cosa è successo?

"Il 15 agosto 1946 nell’arena di Pola ci fu una grande manifestazione di italianità, con quasi 20mila persone. Gridavamo Italia, ma l’Italia non ci poteva sentire. Invece ci ha sentito l’Ozna, la polizia segreta di Tito. Il risultato è stato la strage di Vergarolla, tre giorni dopo. Durante una festa, nella spiaggia gremita di polesani, detonarono nove tonnellate di esplosivo. Oltre 100 persone persero la vita: delle mie tre zie, una è morta, le altre due furono ferite gravemente. Su questa vicenda le opinioni sono controverse, documenti dei servizi inglesi recentemente desecretati hanno attribuito la responsabilità all’Ozna. Quel fatto sancì la morte di ogni speranza di restare nella nostra terra: fu l’inizio dell’esodo. Quando i titini entrarono in città a settembre ’47 la trovarono vuota".

Molti sostengono che gli italiani in Istria erano fascisti.

"Il mio rapporto col fascismo era questo: mio nonno era il socialista storico di Pola, quando arrivava un gerarca veniva preso e ingabbiato per non protestare; subii il fascino della divisa da figli della lupa di alcuni compagni di scuola e la chiesi a mio padre. Mi rispose per le spicce, in dialetto: ’Se no ti la finisci ti dago un sciaffo che il muro te ne dà un altro’. No, non eravamo fascisti".

Cosa ricorda del viaggio verso Firenze?

"Il ddt su mia madre nuda, spogliata davanti a me senza reticenze dagli americani, quando attraccammo a Trieste da Pola col piroscafo, e gli sberleffi dei ferrovieri che ci accoglievano con la bandiera rossa a ogni stazione da Trieste a Firenze. Noi con l’unica colpa di aver abbandonato la terra promessa".

A Firenze è mai stato discriminato?

"Mai. Abbiamo fatto la nostra vita. Mio padre ha aperto un banco di alimentari (a Pola aveva un negozio) nel mercato di San Lorenzo. Lo gestisce ancora mio nipote. Io non ho mai avuto problemi; da quando ho potuto (anni ‘60) sono tornato in Istria con regolarità. Firenze e la Toscana ci hanno accolti, non posso che dire grazie".

Si può parlare senza pregiudizi di quel periodo?

"Ancora no. Quando vado a Pola c’è tuttora chi mi guarda storto. In Italia penso che la memoria debba essere la base per i giovani. Per questo finché posso, non mi tirerò mai indietro per raccontare alle nuove generazioni quello che ho visto e che non potrò dimenticare".