Firenze, 25 novembre 2019 - Molti dubbi, tante incertezze. Punti interrogativi anziché punti fermi. I 50 anni dell’inchiesta sul mostro di Firenze non superano l’esame del dna. E quella che doveva essere una verifica mirata a imprimere il bollo della scienza su sentenze passate in giudicato, ingarbuglia ancora di più le tesi dell’accusa. Presenta il conto ad anni di indagini confuse, il cui unico alibi sono l’arretratezza investigativa degli anni in cui il killer delle coppiette ha ucciso con l’introvabile calibro 22. Consegna un profilo genetico di un mister X che potrebbe anche essere quello del mostro. I ’compagni’ dimenticati. L’ultimo fascicolo, ancora aperto, a carico di Giampiero Vigilanti, il legionario di Prato che ha appena compiuto 89 anni, ha ripreso in mano tutti i reperti disponibili nell’archivio dei corpi di reato. A dir la verità non ce ne sono molti, e sono quasi tutti relativi all’ultimo delitto del 1985 a Scopeti, quando il mostro trucidò una coppia di francesi che dormiva in una tenda. Ed è sulla canadese che il genetista Ugo Ricci ha concentrato i suoi sforzi, alla ricerca di tracce biologiche da estrarre e comparare con i dna in banca dati. E’ qui si scopre la prima grossa falla, dell’inchiesta infinita: non sono mai stati immagazzinati i profili genetici di Giancarlo Lotti e Mario Vanni, i due compagni di merende, oggi entrambi defunti, condannati in via definitiva (a 24 anni il primo, all’ergastolo il secondo) per aver commesso, con Pietro Pacciani, secondo le sentenze, gli ultimi quattro delitti del mostro, tra cui quello del 1985. Uomo sconosciuto 1. Il genetista della procura ha cercato le tracce in punti “sensibili” come ad esempio la zip della tenda o i vestiti.
Un profilo maschile, battezzato «uomo sconosciuto 1», differente da quello della vittima Jean Michel Kraveichvili (anch’esso assente dalla banca dati ma ricavato da altri reperti) è stato isolato su una paio di pantaloni taglia 44 presenti nella tenda. Un ulteriore profilo è spuntato dalla busta da lettere che racchiudeva tre proiettili spediti ai pm Vigna, Canessa e Fleury. Ma questi dna non fanno «match». Non sono di Vigilanti e non sono del medico da lui additato come mandante, Francesco Caccamo. Non sono del medico perugino Francesco Narducci, profilo archiviato dopo la riesumazione del corpo nell’ambito dell’inchiesta per la presunta sostituzione del suo cadavere al momento del ritrovamento nel lago Trasimeno nell’ottobre del 1985. Non sono di Rolf Reinecke, il tedesco ormai defunto che scoprì i cadaveri del 1983, profilo ricavato tramite la figlia. E non sono neppure di Pietro Pacciani che, seppur morto nel 1998 prima di essere nuovamente processato, secondo le sentenze sarebbe stato il capo operativo della sgangherata banda di assassini. Certo, l’assenza di dna, per di più cercato a 30 anni di distanza e su reperti non conservati in maniera impeccabile (sull’esterno della tenda non sono stati individuati profili utilizzabili), non equivale ad assenza certa dalla scena del crimine, ma i flop scientifici s’inseriscono in un quadro probatorio fondato esclusivamente, o quasi, sul ’pentito’ Lotti, sulle cui rivelazioni si sono sostanzialmente basate le condanne. La cartuccia dell’orto. Ad incrementare i dubbi, c’è anche la perizia che il consulente balistico della procura, Paride Minervini, ha depositato sulla cartuccia Winchester serie H che venne ritrovata nella primavera del 1992 nell’orto di Pacciani. Le conclusioni di Minervini sono coperte dagli ‘omissis’, ma sappiamo che secondo il perito, i segni rinvenuti sul bossolo non sarebbero quelli di un incameramento in una pistola, ma qualcosa di artefatto. I depistaggi. C’era la volontà di calcare la mano su Pietro Pacciani? La voglia, o forse l’esigenza, di trovare un colpevole ad ogni costo dopo anni e anni di buchi nell’acqua? E’ questa la domanda che si è posta la stessa procura che, senza timore di smentire se stessa, con il procuratore aggiunto Luca Turco ha aperto l’ennesimo fascicolo sui misteri del mostro che prende spunto proprio dalle conclusioni della perizia sulla cartuccia dell’orto. L’ipotesi è depistaggio: è la prima volta, dopo stagioni in cui si è sempre sospettato l’intrusione nell’inchiesta di esterni (nel 2002, l’allora procuratore Paolo Canessa acquisì le carte sul mostro presenti negli archivi del Sisde, i servizi segreti civili), che s’ipotizza il tentativo di «imbrogliare le acque», come disse Pacciani in uno dei tanti passaggi tragicomici del primo processo che si celebrò a Firenze nel 1994 conclusosi con la sua condanna. © RIPRODUZIONE RISERVATA