Firenze, 9 agosto 2024 – Il Dna. Per dissolvere i troppi punti interrogativi che a quasi quarant’anni di distanza dall’ultimo duplice omicidio, sembra l’unica speranza per l’intricato caso del mostro di Firenze. Così, nella prima estate senza più un fascicolo in procura (l’ultimo, quello sulla cartuccia “farlocca“ nell’orto del contadino Pietro Pacciani, è stato archiviato alcuni mesi fa) pure la politica mette bocca nella storia giudiziaria più controversa del dopoguerra, tutt’altro che chiusa dalle condanne dei compagni di merende Mario Vanni e Giancarlo Lotti, in concorso con un Pacciani morto prima di un nuovo giudizio.
Confidando nei progressi della scienza, l’avvocato Vieri Adriani, rappresentante delle famiglie dei francesi uccisi a Scopeti nel settembre del 1985, e pure di una cugina di Stefania Pettini, la giovane donna ammazzata esattamente cinquant’anni fa con il fidanzato Pasquale Gentilcore a Rabatta, in Mugello, chiede che vengano riesumati i corpi di queste vittime. Per cercare appunto un dna lasciato dall’assassino. L’iniziativa ha fatto breccia in Parlamento e il deputato di Fratelli d’Italia Alfredo Antoniozzi, conterraneo di Francesco Bruno, il criminologo convinto dell’innocenza del “Vampa“ Pacciani, amplifica l’iniziativa del legale e la porta direttamente sul tavolo del guardasigilli. "Ho presentato un’interrogazione al ministro Nordio affinché la procura di Firenze riesumi i corpi di Stefania Pettini e Jean Michel Kraveichvili, due delle 14 (o 16) vittime del Mostro di Firenze, per come richiesto dai loro stessi congiunti, dopo il ritrovamento di un Dna ignoto".
Il Dna ignoto è quello che un consulente di Adriani ritiene di aver isolato su un’ogiva estratta dal cuscino della tenda in cui vennero uccisi i turisti francesi. Quel reperto era stato però analizzato da più periti, ed è stato inequivocabilmente contaminato da uno di essi. Tuttavia, per l’esperto consultato da Adriani, ci sarebbe un’altra traccia, che per altro ritorna anche sui bossoli di altri due delitti. Materiali sufficienti, per i rappresentanti delle famiglie, per non arrendersi e cercare ancora.
E la procura? Pare impermeabile alle ultime sollecitazioni, Dna del proiettile compreso. Il capo dell’ufficio, Filippo Spiezia, ha risposto ad alcune istanze manifestando molte perplessità su altre richieste di riapertura delle indagini. Problemi di costi, di logistica, di mancanza di personale, hanno reso sinora un’impresa impossibile persino il ritrovamento della macchina fotografica (con dentro 17 fotogrammi) che i francesi avevano con sé durante la loro vacanza in cui trovarono la terribile morte. In compenso, nell’inchiesta sul legionario di Prato Giampiero Vigilanti (conclusasi anch’essa con l’archiviazione), almeno un Dna di un certo rilievo investigativo è stato isolato: è quello rinvenuto su un pantalone del francese Jean Michel vicino al punto in cui il mostro, dopo averlo finito a coltellate, lo scaricò.
La possibilità che anche quella traccia non sia altro che una contaminazione, c’è. Per altro quel Dna non combacia con quello di molti sospettati “storici“ di questa vicenda: non è dei fratelli della pista sarda, i Vinci, né di Pacciani, nè del medico perugino Francesco Narducci, né appunto di Vigilanti. Non è stato comparato con quello degli unici condannati, Lotti e Vanni, perché a loro, il dna, nessuno glielo ha mai preso.
Sono lacune come queste, figlie della preistoria investigativa degli anni in cui il mostro seminava il terrore, che contribuiscono a infittire il mistero di otto duplici omicidio che hanno tenuto in scacco gli inquirenti per diciassette lunghi anni. Tutto cominciò nel 1968, a Signa. E tutto potrebbe tornare lì: l’ultimo atto investigativo dei Ros è stato quello di prelevare il dna a Natalino Mele, il bimbo che dormiva sul sedile posteriore mentre la mamma Barbara Locci veniva uccisa assieme al suo amante Antonio Lo Bianco. Se non fosse stato figlio di suo padre Stefano, l’unico condannato per quel duplice omicidio, si potrebbe scrivere una storia diversa.