RITA BARTOLOMEI
RITA BARTOLOMEI
Cronaca

Rigopiano, processo in Cassazione e punti chiave: dalla valanga prevista nel 1999 al “clamoroso errore” nell’assoluzione per depistaggio

Perché il procuratore generale Giuseppe Riccardi ha chiesto un nuovo processo per disastro colposo per l’ex sindaco di Farindola e gli ex dirigenti della Regione Abruzzo (che erano stati assolti). Chiesto un appello bis per l’ex prefetto di Pescara. Il 3 dicembre è attesa la sentenza

Roma, 30 novembre 2024 - Una “clamorosa erronea interpretazione e applicazione della norma” ha permesso l’assoluzione dell’ex prefetto Francesco Provolo dall’accusa di depistaggio nel processo per la strage di Rigopiano.

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La relazione della guida alpina Pasquale Iannetti datata 18 marzo 1999
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La telefonata di Gabriele D’Angelo

E dopo queste parole, nell’Aula Magna della Corte di Cassazione, tra marmi e affreschi, pare di vedere spuntare il sorriso di Gabriele D’Angelo, il cameriere gentile del resort - tra le 29 vittime del disastro - che alle 11.38 del 18 gennaio 2017, 5 ore e 11 minuti prima della valanga, aveva chiamato la prefettura. Ma, clamorosamente, nessuno si era ricordato di quella telefonata di quasi 4 minuti quando la polizia – dopo la strage - era andata a chiedere l’elenco delle richieste di aiuto. Pareva svanita.

Per questo il pg nella sua requisitoria di oltre due ore (siamo al 27 novembre) chiede un appello bis per l’ex prefetto, per valutare le accuse di depistaggio oltre a quelle di concorso in omicidio colposo e lesioni colpose, dalle quali era stato assolto. E chiede di valutare il disastro colposo per l’ex sindaco di Farindola, Ilario Lacchetta, e per sei imputati all’epoca dirigenti della Regione Abruzzo, che erano stati assolti: Pierluigi Caputi, Carlo Visca, Emidio Primavera, Vincenzo Antenucci, Sabatino Belmaggio e Carlo Giovani. C’è di mezzo la mancata realizzazione della Carta di localizzazione pericolo valanghe. La sentenza è annunciata per il 3 dicembre.

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Le accuse di depistaggio alla prefettura

“Clamorosa erronea interpretazione”. Parole implacabili anche se pronunciate con pacatezza quelle del pg della Cassazione Riccardi, davanti ai giudici della sesta sezione penale presieduta da Giorgio Fidelbo. Perché “l’articolo 375 non menziona la necessità che vengano rivolte domande specifiche” – quella era stata la condizione ‘sposata’ per arrivare all’assoluzione - basta anche “il tacere”. E lo ribadisce poi  l’avvocato che rappresenta il ministero della Giustizia. Le parole usate dal legale sono le stesse del pg, “siamo di fronte ad una violazione macroscopica di legge... Un’erronea interpretazione aberrante e paradossale e una falsa applicazione”.

Quella telefonata di 230 secondi “è un elemento fin troppo rilevante ed evidente. Quel tacere ciò che si sa è proprio l’essenza del depistaggio dichiarativo”. Tanto più che “c’era una richiesta specifica nella nota della Squadra mobile del 26 gennaio”. Conclusione: in prefettura avrebbero agito per “evitare guai a sé causando un gravissimo danno alla giustizia, per questo il ministero ha presentato ricorso”.

Il dolore delle famiglie

Ad ascoltare, nell’Aula Magna della Cassazione, sorvegliata da inappuntabili carabinieri che vigilano sui telefonini da tenere spenti, ci sono i legali e pochi familiari delle vittime. Udienza a porte aperte, era stato deciso. Le famiglie sono arrivate da Abruzzo, Marche, Umbria. Mamme e papà si sono svegliati all’alba. Molti però preferiscono aspettare fuori dall’aula. “Non riusciamo più ad ascoltare la solita catena di scaricabarile”, confidano, riferendosi alle parole dei difensori.

La valanga prevedibile e le stragi d’Italia

Il pg nella sua requisitoria insiste sulla “prevedibilità dell’evento” che “è il centro delle doglianze, e il grande assente nell’individuazione delle responsabilità è la Regione”, cosa ribadita “in modo marcato nei ricorsi di Paolo D’Incecco e Mauro Di Blasio”, della Provincia di Pescara, condannati in appello a 3,4 anni ciascuno.

Nelle parole di Riccardi scorrono le stragi del paese. La sentenza Thyssenkrupp, la cosiddetta sentenza Appendino sulla tragedia di piazza San Carlo a Torino. Conclusione del procuratore generale: “La prevedibilità in concreto non può riguardare l’evento valanghivo del 18 gennaio 2017 ma l’evento valanga in generale”. Conclusione ribadita “in tutti i processi che purtroppo negli ultimi anni hanno scandito l’attività di questa corte sulle calamità naturali, giurisprudenza sempre più fitta”.

E qui “si pone la questione dell’agente modello”, che era stato richiamato nell’arringa del pm di Rigopiano, Giuseppe Bellelli. Quella figura di amministratore che sa prevedere i rischi sarà un fantasma continuamente evocato nei due giorni del dibattimento in Cassazione - lavoro serrato con solo due pause -, l’aggettivo che di solito accompagna la citazione delle difese per quella figura ormai mitologica è “irrealistico”.  

Il pg insiste sui segnali d’allarme. Vero che la Regione Abruzzo non aveva la Carta di localizzazione pericolo valanghe - prevista da una legge regionale del 1992, sì avete letto bene: 1992 - ma c’erano i bollettini Meteomont del 17 gennaio 2017, che evidenziavano un rischio 4, e c’erano gli altri eventi avvenuti nell’area, perché a quello si deve guardare. Non al sito, all’area. Ancora: il sindaco di Farindola il 15 gennaio 2017 aveva chiuso le scuole, segno che l’allerta era serissima. Ma per l’hotel, nessuna decisione.

Le parole delle difese 

Giandomenico Caiazza, che difende Provolo, parla di “un’inestinguibile ambizione di vedere riconosciuta una responsabilità” del suo assistito, fin dal primo giorno. Attacca: “Il tema delle valanghe non ci riguarda, non è questione che ci sia contestata”. Definisce il ricorso del pg dell’Aquila in Cassazione “il prototipo del ricorso inammissibile”, propone di farne “uno strumento di studio per concludere come non si deve fare”, contesta (e il tono di voce si alza) “la pretesa di ritirare dentro il prefetto con un’imputazione orrenda sulla base di un ragionamento esoterico, se avesse convocato il Centro coordinamento soccorsi il 16 gennaio avrebbe saputo che la turbina era rotta”. Batte i pugni sul tavolo: “Ma nemmeno il 18, quando il Ccs è stato convocato nella sua formazione completa, i funzionari di Provincia e Anas, certamente informati, dicono che la turbina non è disponibile”. Era rotta dal 6 gennaio.

E sulla telefonata di Gabriele D’Angelo questa è la sua ricostruzione: il prefetto “viene a conoscenza di quella chiamata il 27 gennaio, non per un brogliaccio esistente o no ma perché si stava verificando il numero delle persone interessate dalla tragedia, erano 40 e non 45”, come invece sarebbe risultato da quella disperata richiesta di aiuto del cameriere di Rigopiano. Conclusione del legale: “Il coinvolgimento del prefetto nel depistaggio è assolutamente fuori luogo”.

Quanto ai dirigenti, tra i difensori c’è chi rimarca che “non emerge neppure una prova certa della data in cui gli imputati vennero a conoscenza” della telefonata. Il legale di Ida De Cesaris, Daniele Ripamonti, alza la voce: “I giudici di merito hanno accertato in via di fatto che la mia assistita non lo sapeva”. Poi attacca il ricorso del Pg dell’Aquila definendolo “una riproposizione di evidenza sfacciata e assoluta del ricorso del pm” con “il sistema taglia e incolla. Se un giovane di studio ci propone una cosa del genere, va alla porta”.

Le mamme di Rigopiano davanti al 'Palazzaccio' della Corte di Cassazione
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"La prevedibilità? In astratto”

“Prevedibilità in astratto ma imprevedibilità in concreto”, replicano le difese degli allora dirigenti regionali sulla valanga. E nel corso degli interventi vengono sollevate anche altre questioni: non c’erano fondi, alla carta di localizzazione del pericolo doveva pensare il potere politico, che invece “non voleva mettere a rischio la chiusura delle stazioni sciistiche”. Caiazza poi chiama in causa il “centro funzionale della Regione Abruzzo”, sottolinea che a quella struttura spettava il compito di decidere il livello d’allarme. Un ente rimanda all’altro: lo schema si ripete dall’inizio.

La relazione Iannetti: il testo e le parole delle difese

L’avvocato Cristiana Valentini, nel pool che difende Lacchetta, parla per ultima. Tiene a precisare che “il primo atto di investigazione sulla tragedia si deve a noi”, anzi “a una coraggiosissima guida alpina che una settimana dopo il tragico evento ci ha detto che tipo di neve fosse quella caduta con la valanga, perché abbiamo mandato quella coraggiosa guida alpina a fare un prelievo sul luogo del distacco”. Attacca “la relazione e la cartografia” del geologo Angelo Iezzi, siamo nel 2001, “segnava il simbolo valanghivo al contrario e lo stesso Iezzi ha detto di non essere un esperto di valanghe. Lui non ha previsto alcuna valanga, sono sette anni che lo ripetiamo”. Siamo alla fine della seconda giornata di dibattimento, sono le 16.30, il pubblico nell’Aula Magna è scemato. Ora Valentini cita “il profeta Iannetti”, “la Cassandra di Rigopiano”, e conclude: “Non parlava di Rigopiano”, come hotel.

Ma cosa c’era scritto in quelle due pagine di relazione del 18 marzo 1999, ben 18 anni prima della strage? Ad esempio che ”in merito alla possibilità di cadute di masse nevose, slavine o valanghe nell’area di Rigopiano, non vi è dubbio che sia il piazzale antistante il rifugio Tito Acerbo che la strada provinciale che porta a Vado di Sole, possano essere interessate dal fenomeno”. Siamo a cento metri dall’hotel Rigopiano.

La guida alpina raccomandava: “La zona deve essere tenuta sotto stretto controllo con un servizio di monitoraggio continuo” perché “solo con uno studio approfondito ed un monitoraggio costante sarà possibile dare un quadro leggibile della situazione e fornire gli eventuali interventi”. Conclusione: “Con questi dati la Commissione valanghe potrà fornire indicazioni certe affinché per il futuro si possa garantire la sicurezza delle infrastrutture alberghiere, delle strade e dei parcheggi della località di Rigopiano”. Iannetti scriveva proprio così, “infrastrutture alberghiere e strade”.