
Il fenomeno delle baby gang è in aumento
Firenze, 19 aprile 2025 – Risse tra bande, coltellate, addirittura sparatorie nel cuore della notte, come quella che ha scosso l’Isolotto a Firenze, dove i colpi d’arma da fuoco hanno interrotto nel modo peggiore il sonno di tanti residenti. La violenza giovanile fa sempre più paura e sembra ormai fuori controllo. Abbiamo chiesto al professor Vincenzo Scalia, sociologo all’Università di Firenze e studioso di devianza giovanile, di aiutarci a leggere questo fenomeno sempre più diffuso. Perché i ragazzi scelgono la strada della violenza? Quanto contano i social, la famiglia, la scuola? E cosa possiamo fare, come società, per prevenire tutto ciò?
Professore, cosa sta succedendo ai nostri ragazzi?
«Stiamo assistendo a una crescente presenza di comportamenti violenti tra adolescenti e giovanissimi. Non è un fenomeno nuovo, ma oggi assume una visibilità maggiore per due motivi: la capillarità dei social, che rilanciano in tempo reale video e immagini, e una diffusa assenza di filtri sociali, come famiglia e scuola, che un tempo esercitavano un maggiore controllo. Ma non è una violenza ascrivibile solo ai giovani, perché loro vivono in una società basata sulla competizione, che fa dell'arrivare a tutti i costi la propria cifra. E poi va detto che sono cresciuti in un clima securitario, in cui ad esempio si vuole ampliare la legittima difesa».
Cosa spinge un ragazzo di 15 o 16 anni ad unirsi a una gang?
«La ricerca di identità e appartenenza. Per molti adolescenti, specialmente quelli che vivono in contesti sociali fragili, le gang rappresentano una «famiglia alternativa», in cui sentirsi visti, protetti, valorizzati. Non è solo un discorso economico o criminale: spesso non c’è alcun vero guadagno, ma un bisogno profondo di riconoscimento».
Quanto conta l’influenza dei social network in tutto questo?
«Molto. I social diventano uno spazio di visibilità e di spettacolarizzazione della violenza. Si posta un video di una rissa per mostrare forza, per ottenere approvazione, per diventare virali. In questo modo la violenza non è più solo uno strumento, ma diventa un linguaggio, un modo per dire ‘ci sono’, ‘esisto’».
Molti dei ragazzi coinvolti sono stranieri o figli di immigrati. È un problema di integrazione?
«È un tema delicato. Parlerei più di esclusione che di integrazione: tanti giovani di seconda generazione crescono in un limbo, né completamente accettati né pienamente riconosciuti. Questo li porta a costruire identità alternative, spesso ribelli, e talvolta a trovare nella violenza una via di espressione. Ma non dimentichiamo che anche molti ragazzi italiani sono coinvolti: il disagio è trasversale».
Cosa può fare la scuola in questo contesto?
«Molto, se le diamo i mezzi. La scuola può essere il primo argine, ma spesso è lasciata sola, senza strumenti. Serve formazione, presenza di educatori, spazi di ascolto e progetti reali di inclusione. La prevenzione della violenza non si fa con le punizioni, ma con la relazione».
E la politica?
«Deve smettere di inseguire l’emergenza solo quando scoppia il caso mediatico. Serve una visione a lungo termine su giovani, cultura, sport, aggregazione. La repressione ha senso solo se è accompagnata da una rete sociale forte, che oggi manca».
C’è una via d’uscita?
«Bisogna ascoltare di più i giovani. Se li lasciamo soli, si costruiranno da soli. E, spesso, lo faranno in modo violento».
Elettra Gullè