ANDREA SPINELLI
Cronaca

Storie di vita raccontate in musica. Vasco Brondi lancia il suo pop

L’artista stasera sarà all’Anfiteatro Ernesto de Pascale e festeggia quindici anni di carriera

Storie di vita raccontate in musica. Vasco Brondi lancia il suo pop

Storie di vita raccontate in musica. Vasco Brondi lancia il suo pop

È una notte di sogni e di fuochi "che bruciano, tormentano, ma possono pure illuminare" quella promessa di Vasco Brondi al pubblico delle Cascine, dov’è in scena oggi nell’ambito dell’Ultravox Festival. "Faccio dischi da quindici anni, ma continuo a non averne il controllo" assicura lui parlando di quel "Un segno di vita" (arrivato secondo nella categoria riservata al miglior album dell’anno del Premio Tenco 2024) che presenta sotto le stelle dell’Anfiteatro Ernesto De Pascale. "L’approccio iniziale, infatti, è sempre un po’ quello di lanciarmi allo sbaraglio, di seguire una scia, e solo alla fine riuscire a cogliere quanto accaduto. Così solo riascoltando queste canzoni mi sono reso conto che erano piene d’incendi nei boschi, di lampi interiori capaci di rischiarare la notte. In fondo le canzoni per me sono sempre state un po’ dei talismani, fiamme attorno a cui scaldarsi, da soli e con gli altri". Intanto il cantautore ferrarese (ma nato a Verona) ha appena firmato la sua prima colonna sonora, quella di “Fiore mio”, il film dello scrittore Paolo Cognetti in cartellone il 6 agosto alla 77a edizione Festival di Locarno.

Da cosa nasce questo suo bisogno di guardarsi dentro?

"Quando è arrivato il decennale de Le Luci della Centrale Elettrica con relativa antologia, ho terminato un ciclo, perché sentivo la necessità di propormi in maniera diversa, rivelandomi di più e in prima persona, col mio nome, senza paura di abbattere quella che in teatro chiamano la quarta parete".

Cosa l’ha portata a incidere ’Un segno di vita’?

"Sono uno di quelli che devono sempre fare le scintille, avere qualcosa di speciale da inseguire, per decidersi a registrare un disco. Così, dopo un album fuori dagli schemi come il predecessore ‘Paesaggio dopo la battaglia’, basta ricordarsi che il primo estratto ‘Chitarra nera’ durava 6 minuti ed era in parte parlato, mi sono detto che forse la cosa più sperimentale da fare fosse quella di misurarmi con la canzone classica. E ho capito che pure in questa dimensione dentro me c’è sempre qualcosa di sbagliato, di maldestro, che finisce col rovinare quel che scrivo. Da qui l’idea di chiamare il mio genere ‘pop impopolare".

Una ’impopolarità’ fermata in dieci canzoni.

"Le canzoni sono meccanismi sintetici e pure questo disco è frutto di una sintesi estrema. Ci ho lavorato sopra tre anni, ritrovandomi alla fine materiale non per uno, ma per tre album. Tant’è che ad un certo punto avevo pensato addirittura di pubblicare un doppio. Poi ho selezionato al massimo, dando vita ad un vero e proprio ‘best of’ del materiale che avevo nel cassetto. Tutto quel che è esondato dal disco l’ho messo in un piccolo prontuario, ovviamente intitolato ‘Manuale di pop impopolare’. Storie di vita fermate su carta o memoria elettronica in alta montagna come in un seminterrato a Milano, in Marocco come alle Canarie o nell’inverno padano di Ferrara".

Quali sono i viaggi che l’hanno portata più lontano?

"Quelli che Luigi Ghirri, grande fotografo emiliano, faceva con lo scrittore Gianni Celati e chiamava ‘viaggi domenicali minimi’, giri epici nel ferrarese che ho provato a rifare in motorino scoprendomi a valorizzare posti da cui prima volevo solo scappare. Altra esperienza formativa, un lungo viaggio in India, perché ti sembra di vivere in un altro pianeta, affascinante pure nelle sue contraddizioni. Come diceva Terzani "se in Occidente Dio è morto, in India ha mille indirizzi".