Pisa, 2 agosto 2023 – Frutta e ortaggi coltivati nella bella Toscana crescono anche all’ombra di un fenomeno ritenuto a lungo estraneo alla regione delle eccellenze: il caporalato. Nel dizionario Oxford Languages, esso viene definito "un sistema di reclutamento della manodopera attuato nel meridione ad opera dei caporali". Una definizione che, secondo quanto emerso dalla ricerca commissionata dalla Ong WeWorld e da Tempi Moderni, e realizzata da Federico Oliveri, ricercatore del Centro interdisciplinare Scienze per la pace dell’Università di Pisa, andrebbe cambiata. Quantomeno la specifica diffusione circoscritta al solo meridione. Infatti, il fenomeno è ben presente e radicato anche in Toscana. La ricerca si è svolta nel corso dell’ultimo anno nella Maremma grossetana, della Val di Cornia livornese e di alcune aree intorno ad Arezzo. L’autore della ricerca ci dà un’anticipazione del rapporto finale, che uscirà a settembre.
Si tratta della prima ricerca di questo tipo?
"È la prima volta che vengono fatte interviste a donne migranti dall’Africa che hanno vissuto esperienze di sfruttamento nelle campagne della Toscana. Volevamo verificare ciò che già molti sindacati avevano denunciato, ovvero una presenza sistemica di sfruttamento nelle filiere agricole della regione".
Cosa è emerso?
"Un quadro critico. In media ci troviamo di fronte a paghe di 5 euro l’ora, per 12 ore di lavoro, senza giorni di riposo. Si lavora anche nelle ore più calde e senza alcun tipo di protezioni, senza pause e costantemente sotto il controllo dei caporali. Non c’è mai un contatto diretto con i padroni. La minaccia del licenziamento è immediata per chi protesta e viene usata per mantenere le lavoratrici in queste pessime condizioni. In Val di Cornia, inoltre, abbiamo registrato un altro elemento di ricatto".
Quale?
"In quel caso, i proprietari dell’azienda affittavano a nero e a prezzi elevati ai lavoratori degli spazi ricavati all’interno di alcune strutture di loro proprietà. Un vero e proprio ricatto abitativo. Abbiamo registrato anche testimonianze riguardo ad abusi sessuali: una delle donne intervistate, nella zona di Arezzo, ha riferito di altre compagne costrette ad avere rapporti sessuali con il padrone o con il caporale per non essere licenziate. In Maremma, invece, abbiamo raccolto le storie di due donne nigeriane ospiti di un centro di accoglienza: scampate alla prigionia in Libia, sono finite a lavorare nei campi in condizioni di sfruttamento".
Come si spiega questo fenomeno?
"Da molti anni i centri di accoglienza sono stati sottofinanziati. Due o tre anni passati in una struttura senza far nulla e senza prospettive per il futuro sono tanti. In questo contesto di noia e di attesa è facile finire nelle reti del caporalato".
Quali sono gli strumenti per contrastare e prevenire lo sfruttamento?
"Sul fronte dei controlli, vanno incrociati i dati sulla produzione, sulle superfici coltivate e sulle ore di lavoro dichiarate. Se così non è, vuol dire che c’è lavoro sommerso. Serve un sistema di tutele per chi vuole denunciare. Infine, andrebbe ripensata la filiera, dando più potere ai piccoli-medi produttori che subiscono la pressione della grande distribuzione e sono indotti a vendere sottocosto, rifacendosi sui lavoratori e sulle lavoratrici. E rendendo la grande distribuzione co-responsabile delle violazioni commesse dai fornitori".