Firenze, 8 gennaio 2025 - Babylon. Ovvero, la polifonia nel cinema. Merito di un signore nato un secolo fa a Kansas City, in Missouri, crocevia da sempre delle rotte verso l'Ovest. Si chiamava Robert Altman, e ha fatto del melting pot uno stile di vita: padre di origine tedesca, madre inglese e irlandese, di formazione gesuita, ma di professione ateo, dopo il congedo militare iniziò la sua carriera tra radiodrammi, mimic movies per la tv e il primo lungometraggio - "The Delinquents", 1956 - dedicato a James Dean e apprezzato niente meno che dal leggendario Alfred Hitchcock.
Negli anni dell'apprendistato, fu assistente di produzione, autore, regista, sceneggiatore e montatore per decine di documentari industriali; ma il mito di uno dei maestri assoluti della New Hollywood - raccontato dal Cinema La Compagnia nel corso di undici appuntamenti in lingua originale - comincia alla fine degli Sessanta con un thriller di genere ispirato al romanzo di Richard Miles, "Quel freddo giorno nel parco", primo capitolo di una trilogia sulla psicosi femminile e le inquietudini legate al desiderio di maternità, evasione e sesso che il regista proseguirà nella decade successiva con "Images" (1972) e "Tre donne" (1977).
La parola chiave però è proprio "genere": Altman parte dai classici - noir, western, war movie, commedie - come fossero cerchi, quadrati, triangoli da scomporre e ricomporre secondo formule sempre nuove: un universo caotico e anarchico, ma coerente culturalmente con i fenomeni letterari del periodo - da Joseph Heller a John Barth fino a Thomas Pynchon - e ideologicamente con una visione disincantata delle relazioni umane, dove gli uomini e le donne si incontrano casualmente lungo un cammino individuale. Dall'improvvisazione creativa che regnava sul set, dove beveva, fumava e improvvisava con il cast, si passava senza soluzione di continuità alla regia dietro la macchina da presa, fondata sul continuo overlapping di voci, suoni e figure come di formati, stili e generi diversi.
Arrivarono così i primi successi, che trasformarono l'underdog di Hollywood in un autore premiato nei festival di mezzo mondo: "M.A.S.H" (1970) vinse la Palma d'Oro a Cannes, e divenne allo stesso tempo una satira degna di "Animal House" sull'istituzione militare e un' allegoria sul nemico di ogni soldato, la morte. Già, perché nella struttura multiprospettica e polifonica del cinema altmaniano la vita e la sua negazione fanno sempre capolino, e le ombre e le inquietudini del sogno americano , scalfito dalla guerra nel Vietnam e gli omicidi di personalità come i fratelli Kennedy, Martin Luther King e Malcom X, sono presenti anche in un altro film uscito pochi mesi dopo, "Anche gli uccelli uccidono".
Ed è forse per capire quanto ci sia di vero nella mitologia dell'American way of life che Altman risale alle origini della sua iconografia: non sapremo mai se John McCabe (Warren Beatty), protagonista del western innevato e musicalmente coheniano "I compari" (1971), sia uno spietato pistolero che ha ucciso un uomo dopo una partita a poker, oppure un avventuriero opportunista che cerca di raccattare qualche spicciolo mettendo in piedi con l'aiuto della scaltra maitresse Mrs. Miller (Julie Christie) un bordello nella sperduta Presbyterian Church; allo stesso modo, il Marlowe interpretato da Elliott Gould nello splendido "Il lungo addio" (1973) viene trasformato in un detective al contrario: i misteri si risolvono da soli oppure restano tali - come la sparizione del suo gatto - e l'unica certezza di cui è convinto - l'amicizia con Terry e il dovere morale di dimostrare la sua innocenza - si rovescerà nel più beffardo degli epiloghi.
Dopo "Gang" (1974), gangster movie eterodosso ambientato nel Mississippi della Grande Depressione tra luoghi e umanità desolate e in rovina, per il genio di Kansas City è ormai evidente quanto il sogno americano sia stato costruito sulla falsificazione storica dell'immagine: così, fa un salto in avanti nel tempo con "California Poker" (1974), raccontando lo squallore delle sale da poker, dove le luci e i rumori, il gioco e l'eccesso, il rischio e l'adrenalina nascondono l'horror vacui di esistenze piatte e monotone. Per la prima volta, il regista si serve di più cineprese e del "Lion's Gate 8-Tracks" - primo mixer ad otto tracce che esalta l'uso dell'overlapping - stesso sistema che utilizzerà nel suo capolavoro, "Nashville" (1975), dove la scena si sposta dai tavoli del gioco d'azzardo al palco-città di Nashville, capitale del country nel Tennessee: un circo a cielo aperto, barocco quanto assurdo, in cui la giornalista truffatrice Opal, parodia del Virgilio dantesco, guida il pubblico attraverso gli intrecci multipli di ventiquattro personaggi, che affollano lo schermo con le loro storie squallide e insignificanti.
Gli anni Ottanta, segnati da insuccessi commerciali e resistenze dei produttori, spinsero Altman da Hollywood verso il teatro, ma un romanzo di discreto successo scritto da Michael Tolkin, "I protagonisti" (1992), lo riporterà nuovamente dietro la cinepresa per un'altra satira, geniale e imprevedibile, nerissima e paradossale, sul mondo dello spettacolo e le sue contraddizioni: un noir mascherato da commedia brillante che farà da battistrada per altri straordinari successi. Ma questa è un'altra storia.