
Ferruccio Soleri
Firenze, 24 settembre 2018 - "Il mio segreto? Forse aver fatto stretching per anni, anche due ore prima dello spettacolo. Come allenamento saltellavo su e giù per le scale per farmi il fiato. E sempre sei piani tre, ma anche quattro volte al giorno, non correndo, ma a ritmo veloce: non ci si crede, ma è un grande aiuto per il cuore e per i polmoni. Finché ho portato in scena Arlecchino ho fatto così. Un gesto semplice e ripetuto, di quelli che scaricano la tensione. Oggi la prendo più comoda, ma non ho abbandonato l’allenamento. Anche se ormai non ce la faccio più a fare Arlecchino, anzi, da poco ho proprio smesso. Oh, sono del ’29, io". Ferruccio Soleri ha appeso la maschera al chiodo. Ma Arlecchino per Soleri è come una pelle, e per il mondo Arlecchino è ancora lui. La voce squillante e allegra, Ferruccio Soleri è nato a Firenze quel 6 novembre: è attore teatrale, drammaturgo, regista. Sorride quando parla di questo personaggio irriverente che gli ha occupato tre quarti della vita.
Soleri, in chi vede Arlecchino oggi?
«Lo penso ancora come simbolo dello sberleffo di giochi, malinconie, burle, lazzi e bisticci. Potrei dire cose, ma non vedo Arlecchino in nessun contemporaneo. Diciamo che non è più attuale. È una maschera nata dalla contaminazione di due tradizioni: lo Zanni bergamasco da una parte e i diabolici personaggi farseschi della tradizione popolare francese dall’altra. Ma lui era uno schiavo, e oggi, per fortuna, di servi o schiavi non ce ne ne sono più. Perché questo rappresentava».
Invece Arlecchino cosa è stato per lei?
«Devo dire che non mi sono mai sentito di avere l’anima di questa maschera, casomai ero l’interprete di un personaggio a cui davo vita. Sono stato contento di questo lavoro, perché Arlecchino piaceva alla gente. Era allegro, ingenuo, un misto di corpo e anima, fame e poesia: ed era voluto da Strehler che sosteneva che in lui ci fosse la poetica più vera del teatro. Del suo teatro. E debbo tutto a Strehler».
Da Firenze a Milano.
«Nascere in una città d’arte come Firenze dà un certo vantaggio. Ho iniziato presto a stare sul palcoscenico: all’inizio pensavo di fare il ballerino, perché ero amico di Beppe Menegatti (marito di Carla Fracci, ndr), facevamo danza a insieme. Allora ho studiato il movimento che mi è servito molto per fare Arlecchino. Che è un personaggio che ha bisogno di agilità e rapidità elastica. I miei compagni fiorentini di avventura si chiamavano Renzo Montagnani, Gianna Giachetti, Roberto Guicciardini, Ilaria Occhini. Il mio maestro è stato Orazio Costa. Li ho molto amati».
Strehler.
«Fu Orazio Costa a dirmi: Soleri tu sei un Arlecchino. Ho ereditato il ruolo da Marcello Moretti, nel 1960, mentre lavorava a Milano, fu lui a parlare di me a Strehler. Gastone Moschin mi ha insegnato a parlare in veneto. Strehler era un genio, lo sanno tutti e soprattutto io: litigavamo, o meglio lui litigava con me, perché era esigente e pretendeva tanto. Ma poi faceva spettacoli pieni di umanità, ed emozione che non hanno avuto uguali. Strehler era fantastico, meraviglioso, un po’ cattivello e di straordinario talento: tutto il teatro deve molto a lui».
E la maschera?
«All’inizio non ne sapevo niente poi ho studiato la commedia dell’arte: sono stati gli altri a scoprire che in me c’era questo personaggio. Pensavo di farlo per una sola tournée e invece Strehler mi prese come sostituto del Servitore di due padroni, lì sono rimasto per decenni. C’è questo senso del tempo come limite, come condanna a essere felici».
C’è stato un momento in cui si è accorto di esser diventato importante?
«Ce ne sono stati tanti. Con Arlecchino ho girato tutto il mondo, sono arrivato in Australia. Ci sono pochi Paesi nel mondo dove non sono stato, e sempre acclamato, applaudito, gratificato da tutti. A Londra la regina mi ha ricevuto a Buckingham Palace interrompendo il suo pranzo: una cosa mai successa. E poi in America, altra soddisfazione, venne a vedermi mezza Hollywood. O quando in Cina non riuscivo a cambiarmi perché il pubblico si inginocchiava davanti a me e mi baciava persino i piedi. Mai stato tanto felice e imbarazzato».
Apprezzamenti indimenticabili.
«Sir Laurence Olivier venne a vedere l’Arlecchino a Londra. In camerino disse: “Stasera avrei voluto essere come lei”. E la visita improvvisa del presidente Sandro Pertini che mi abbracciò entusiasta. Ho molte foto con lui. Credo sia stata la cosa più bella che mi sia capitata».
Soleri, lei ama Arlecchino ma è come se ne prendesse le distanze.
«Credo che l’errore sia sentirsi il personaggio che si interpreta. Io non mi sono mai sentito Arlecchino: volevo che gli altri credessero in me come attore. Col sangue pulito, energia, appartenenza, cultura, memoria, una lunga ininterrotta conversazione. Non come maschera».
E nella sua vita?
«Ma certo che le priorità sono altre, come sfrattare il cuore da un movimento. E di nuovo l’errore è sentirsi personaggi: perché la gente ti ama se sei solo te stesso».