Firenze, 24 dicembre 2022 - “S’ha a mangiar tanto per Ceppo”, dicevano i nostri nonni, chiamando così il Natale dalla tradizione di mettere un grosso ceppo di legno ad ardere nel camino dalla Vigilia fino a dodici giorni dopo Befana, che, si diceva, serviva a scaldare Gesù bambino quando il bue e l’asinello erano troppi stanchi e infreddoliti anch’essi per assolvere alla propria mansione di efficientamento energetico della capannuccia.
Dopo mesi di ristrettezze, poca carne e troppo lavoro nei campi, uscendo dall’autunno umido, dove “il sole di bruma dinnanzi ti scalda e di dietro ti consuma”, ci si poteva finalmente rilassare e concedere degni pranzi con i parenti. Oggi la fame non si patisce più, ma il pranzo di Natale è rimasto il momento convivale d’elezione, nel corso dell’anno, con i parenti. Ogni famiglia ha le proprie usanze consolidate, i piatti irrinunciabili, ma la parola d’ordine è sempre una: tradizione. E se le tradizioni sono una per tavola, ci sono pietanze che sono diventate la bandiera delle feste natalizie: ne scegliamo dieci, una per provincia. Più le cugine La Spezia e Perugia, appena al di là dei confini.
Nel capoluogo, si mangi quel che si vuole, ma il principio deve essere rigorosamente con i crostini, che siano di fegatini o di milza, qualcuno si lancia pure sul lampredotto, sulla poppa e sul centopelle. Perché quello di Firenze con il quinto quarto è un amore imprescindibile: poca spesa, massima resa. Quella che sia la frattaglia prescelta, una raccomandazione per essere fiorentini doc: i crostini devono essere bagnati nel brodo.
E se i fegatini sono il principio e il principe indiscusso a Firenze, il resto del pollo, anzi il cappone, è il re della tavola un po’ in tutta Italia, ma specialmente nella provincia pisana, dove si fa lesso con le erbe di campo. Ci si cominciava a preparare già mesi prima: “Ne castravamo due in estate: uno per il Natale e uno per il Capodanno”, racconta Luigi, anziano contadino della Valdera. Non si buttava via neppure il collo: tante massaie lo pulivano a dovere, lo ripienavano con un uovo sodo, macinato, avanzi di salumi tritati, formaggio, pane raffermo, uovo sbattuto e spezie che variano da famiglia a famiglia. Poi veniva legato con lo spago e lessato in brodo, oppure fatto al tegame.
Ma il cappone non è l’unico volatile protagonista della feste: a Prato, il prescelto per la tavola natalizia era il papero, che si faceva in umido, usando il sugo per condire la pasta, oppure i sedani alla pratese: ovvero la strategia della Piana per rendere una sana e ipocalorica verdura una bomba nutriente per sfamare tante bocche. I gambi di sedano vengono infatti prima puliti dai fili, divisi a bacchette e sbollentati in acqua; poi una volta freddati e asciugati, sono farciti nell’incavo con un ripieno analogo a quello del precedente collo di pollo (senza uovo sodo) e riaccoppiati, come una cannuccia; vengono poi infarinati, passati nell’uovo e fritti; infine si rifanno cuocere a lungo e lentamente nel sugo di papero.
Anche nella Valdichiana aretina e nella vicina Perugia, protagonista è il papero, che qui si chiama oca, o meglio al maschile oco, dialettale: ma si preferisce farlo arrosto, possibilmente nel forno a legna, porchettato. Irrinunciabile per insaporirlo è il finocchietto selvatico, e il boccone più prelibato conteso a tavola, i fegatini.
Già che siamo nel sud della Toscana, facciamo un salto in Maremma grossetana, dove a finire in pentola per le feste è sempre il cinghiale, quasi sempre in umido e non di rado con aggiunta di olive e pancetta. Anche qui il sugo va a condire pregiati primi: pappardelle certo, ma anche i celebri ravioli con la ricotta di Manciano. Ma la Maremma ci viene in aiuto anche per la cena della Vigilia, dove dalla laguna di Orbetello e dall’Arcipelago vengono tante specialità ittiche, una tra tutte la bottarga di muggine della laguna.
E se dici pesce e Vigilia, non puoi non citare il cacciucco alla livornese, piatto bandiera della città labronica. Anche qui senza una ricetta precisa: si mette quel che si è pescato, quel che non si è venduto e quello che hanno insegnato i nonni, che non di rado si accapigliano tra loro per il pesce che ci va meglio. E più il pesce è povero, più viene buono. Già che siamo a Livorno, prendiamoci quello che ci serve sicuramente per sfondare i nostri pasti gargantueschi: il ponce alla livornese, da bere nel caffè bollente. Se non funziona quello, c’è solo una lavanda gastrica agli Spedali riuniti.
Sconfiniamo lungo costa sopra, in Versilia e qui concediamoci un dolcino: i befanini, che si trovano in tutta la provincia di Lucca: sarebbero, come dice il nome, pensati per regalarsi nelle calze dei bambini a Befana, come ricordano nelle lore simpatiche forme dove non manca mai quella a calza (ma si trovano anche a stella, a cometa, ad alberino, ad angioletto, ad animaletto, a fiore o semplicemente tondi) ma sono in tavola per tutte le feste. Rigorosamente gialli per la generosa dose d’uovo, ricoperti di codette di zucchero colorate, hanno un intenso sapore di burro e vaniglia e un leggero aroma d’anice per il Sassolino nell’impasto.
Saliamo per le Apuane ed entriamo a Massa Carrara, che non possiamo non trattare insieme alla vicina Spezia, che qui le culture si fondono nelle vallate, in quella regione non amministrativamente riconosciuta che è la Lunezia: il testo, strumento di cottura la cui origine si perde nella notte dei tempi, è la costante di ogni piatto e oltre a cuocere fantastici arrosti, serve per produrre i tipicissimi testaroli, con farina di farro o di grano, da condirsi quando è stagione con un pesto leggero di basilico, ma ora d’inverno al ragù. ma c’è anche la cima ripiena: bisogna farsi tagliare una pancetta di vitello con un’apposita tasca e ripienarla di tutto e di più: tra i tanti ingredienti che anche qui variano di famiglia in famiglia, ci sono sempre le bietole e/o gli spinaci, il parmigiano, le uova, la macinata, la mortadella e spesso anche ricotta, l’uovo sodo, avanzi di salumi e di carne macinati.
Scorriamo lungo il crinale e arriviamo sulla Montagna pistoiese, dove la regina è stata sempre la castagna, la cui farina sfamava le famiglie per tutto l’inverno: vuoi non farli due necci, da ripienarsi con la ricotta, o un castagnaccio, con i pinoli, le noci e il rosmarino?
Ma per i dolci non possiamo concludere che con la regina della pasticceria toscana: Siena. Il panforte e i ricciarelli non hanno bisogno di presentazioni. I cavallucci sono già meno conosciuti fuori Toscana, forse perché non a tutti piace il loro intenso sapore d’anice; e ancora meno conosciuto è il pan co’ santi, che sarebbe tradizionale per Ognissanti, come dice il nome, che tuttavia si perpetua nei forni per tutto l’autunno. Un pane povero, insaporito con tanto pepe, è ricco di uvette e noci, che rappresentano, allegoricamente, appunto, i santi. Quasi sconosciute invece le copate (accoppiate), così chiamate perché fatte da due ostie accoppiate ripiene di un impasto croccante di noci e mandorle tritate, unite dal miele. Anche se qualcuno fa derivare dall’arabo “qubbiat”, che significa mandorlato, attribuendo così il dolce a terre lontane, la tradizione (e forse la vera origine) vuole che lo abbiano inventato proprio le monache senesi, che si sono ingegnate per creare qualcosa di gustoso, è il caso di dirlo, con quel che passava il convento: ostie appunto.