Firenze, 6 marzo 2021 - Signora, come la devo chiamare? Direttore, direttora, direttrice? Da quando dirigo La Nazione è la domanda che mi è stata fatta più spesso indistintamente da uomini e donne. E mi ha messo fin da subito nella condizione di dover riflettere molto seriamente sull’uso delle parole e sull’importanza del linguaggio per definirci: come professioniste, ma ancora prima come persone.
Il caso di Beatrice Venezi a Sanremo e le polemiche che ne sono seguite mi ha quindi confermato un’amara verità: in Italia nel 2021 il modo con cui una donna viene chiamata, o sceglie di farsi chiamare, è una questione politica, strumentalizzata dalla politica per veicolare messaggi e campagne che piegano le battaglie per la parità di genere al proprio tornaconto ideologico.
Direttore piace alla destra. Direttora alla sinistra. Direttrice sarebbe semplicemente lingua italiana (la declinazione al femminile di una parola che prevede grammaticalmente l’uso del femminile), ma non a tutti è ancora chiaro.
Quando una donna sceglie il modo con cui vuole farsi chiamare, nell’ambito della sua professione, viene immediatamente giudicata: è femminista, no è maschilista. E' ingenua, no è noiosa. È fascista, no è comunista. C’è chi addirittura la butta sull’estetica: c’è, ovvero, chi si sente legittimato a dire se una parola piace o non piace (da quale punto di vista, esattamente? Fonetico, armonico, neomelodico?) quando declinata al femminile. Pazzesco, non trovate?
Negli anni ’70 le donne si battevano per poter disporre del proprio corpo con autonomia e libertà di coscienza. Oggi siamo a battagliare per poter disporre del nostro nome, e dunque della nostra identità, con un’autonomia e una libertà che ancora evidentemente non abbiamo, visto che il modo con cui scegliamo di farci chiamare è sottoposto al severo giudizio di una parte o dell’altra dell’opinione pubblica. Per la cronaca, rispondendo alla domanda iniziale: io ho scelto di farmi chiamare direttrice.