Firenze, 10 aprile 2022 - Non sono tanto, o non sono solo i numeri a fare male. Anche se i numeri sono importanti, sono lo strumento che prova a dare un ordine di grandezza alla crudeltà. I numeri, dunque: l’oggettività del crimine. Eccone alcuni: sono 360 i morti di Bucha, i bambini almeno 10. Sono almeno 133 i morti di Makariv. Furono, nell’estate del 1944, 560 i morti di Sant’Anna di Stazzema, 159 quelli di San Terenzo Monti, 162 quelli di Vinca. La conta delle vittime massacrate e torturate nella cintura di cittadine attorno a Kiev non è tanto diversa da quella che fummo costretti a fare nei villaggi lungo la nostra linea gotica: così il prezzo della ritirata dell’esercito russo è altrettanto oneroso di quello dei nazifascisti in fuga nell’Italia della seconda guerra mondiale.
Perché questo paragone? Perché nella settimana in cui sono venuti alla luce i crimini dei militari di Putin nelle cittadine occupate e assediate dell’Ucraina, ho pensato che all’inizio di questo ignobile conflitto avevamo sottovalutato un punto, un nodo di congiunzione che affligge ogni guerra, di ogni latitudine, di ogni epoca. E che neppure la comunicazione di massa, neppure la copertura social (capillare e immediata), neppure i droni e i satelliti più sofisticati riescono a scalfire. Di questo, parlo: la crudeltà si consuma sempre di nascosto.
Occorrono giorni, talvolta settimane come nel caso di Bucha (i primi omicidi accertati risalgono almeno al 14 marzo), perché venga alla luce, perché possa essere raccontata, documentata, denunciata. Occorrono talvolta decenni perché le vittime abbiano giustizia (per Sant’Anna ci sono voluti sessant’anni). A volte, spesso, non hanno mai giustizia. Ma in questo caso, all’inizio della guerra, mentre documentavamo sui giornali, nelle televisioni, attraverso Facebook o Instagram, l’incedere macabro del conflitto, ci eravamo illusi di poter conoscere perfino l’intimità dell’orrore nell’attimo esatto in cui si consumava: i primi carri armati in fila indiana dentro i confini ucraini, i bombardamenti su Mariupol, le trincee attorno a Chernobyl, gli spari sui profughi in fuga, la famiglia sterminata (madre, padre, due figli) sotto l’occhio di una telecamera a Irpin, la donna incinta trasportata fuori dall’ospedale bombardato. Tutto accadeva sotto i nostri occhi, attimo dopo attimo: una guerra in presa diretta, come mai prima era stata raccontata.
E invece gli eccidi, quelli no: quelli non li abbiamo saputi, quelli non li abbiamo visti né potuti raccontare né denunciare, mentre accadevano. Ed eccola la liturgia delle stragi che si ripete identica a se stessa, oggi come allora: ecco i racconti dei sopravvissuti di Bucha risuonare così simili ai racconti dei nostri sopravvissuti, a Sant’Anna, a Vinca, a San Terenzo, a Fucecchio. E allora: i numeri misurano la crudeltà e la morte, certo, ma a farmi male più di ogni cosa è questo eterno ritorno, da cui nessun progresso riesce a farci sfuggire. Le guerre, davvero, non cambiano mai.