Firenze, 9 aprile 2020 - In questi giorni di buoni propositi planetari come alla vigilia di un capodanno cruciale, in cui ci chiediamo come potrà e dovrà ripartire l’Italia – giorni in cui si ripete «nulla sarà più lo stesso» – arriva lo schianto del ponte di Albiano Magra, nel cuneo di terra toscana che si infila nella Liguria, a ricordarci che tutto è invece tristemente uguale a prima. Con una differenza, rispetto al prima: il covid-19 in questo caso ci ha salvati. Non ci fosse stata la pandemia a desertificare strade normalmente sovraffollate, oggi saremo qui a parlare di una carneficina, non dell’ennesima infrastruttura finita a terra con la stessa facilità di una lama che taglia il panetto del burro.
Al terzo ponte distrutto in due anni nell’arco di poche centinaia di chilometri – il Morandi di Genova, il viadotto sulla Torino-Savona e ieri questo ultimo – anche la metafora del crollo come paradigma di un Paese stremato appare obsoleta. Stavolta è molto peggio. Al copione sempre uguale delle incurie, delle omissioni, degli errori eravamo allenati: non è andata diversamente. Da mesi le autorità locali chiedevano l’intervento di Anas, lo dimostrano i documenti che pubblichiamo in queste stesse pagine. E la risposta di chi avrebbe dovuto fare manutenzione, proteggere l’incolumità dei cittadini e l’efficienza delle nostre infrastrutture – nostre, certo, di tutti noi – è stata ancora una volta disastrosa.
Chi pagherà per questo? Chi risarcirà, economicamente e moralmente, quelle decine di migliaia di persone dei paesi e delle città che vivevano e lavoravano grazie al ponte? Quando il covid ci avrà dato tregua dovremo ricostruire l’Italia intera, ma chi oggi invoca un nuovo piano Marshall, una grande risposta europea e magari intercontinentale ai danni economici del virus, dovrà tenere conto anche della necessità della ricostruzione morale di un’Italia che – senza mai trovare colpevoli – ha lasciato morire un ponte costruito un secolo fa, un ponte magnifico. Ecco la rappresentazione plastica di un Paese che ha perso amore per se stesso, incapace di provare orgoglio e di un nuovo slancio etico.
Cosa possiamo fare noi come giornale? Questo: non alzare cortine di fumo sulle responsabilità, non dimenticare, non smettere di chiedere risposte e di pretendere che almeno stavolta una responsabilità venga trovata, un risarcimento venga offerto. Solo da qui parte il cambiamento, e anche la ricostruzione.