
Dipendenza dal gioco. La lotta alla ludopatia: "Gruppi di mutuo aiuto per uscire dal tunnel"
Soldi bruciati nel gioco legale. Ma il banco vince sempre, vince lo Stato, che in questa storia "veste i panni di un biscazziere", ha spiegato più volte don Armando Zappolini, direttore della Caritas diocesana, pioniere di grandi battaglie e in prima fila in Italia contro il gioco d’azzardo. Il gioco che seduce, ammalia e, spesso, rovina le esistenze. Di gioco si può anche morire. Una piaga nella quale Fucecchio ha da tempo un triste primato in diocesi con quasi trenta milioni di soldi giocati e poco più di 20 restituiti in vincite. Anche in ragione di tutto questo Fondazione I Care è da anni impegnata su questo fronte. Una realtà, la Fondazione, che opera sul territorio, coinvolge i cittadini perché si incontrino e riflettano, uno spazio pubblico che possa offrire opportunità di crescita culturale. E anche di salvezza. Ne parliamo con il presidente Paolo Sordi.
Presidente, anche recentemente, avete dedicato una serata di approfondimento sul problema del gioco d’azzardo...
"Ce ne occupiamo da anni. L’ultima iniziativa è stato un momento di analisi dei dati e del fenomeno, aperto alla cittadinanza".
Ma siete anche operativi sul territorio. Giusto?
"Prima della pandemia organizzammo con la collaborazione del Sert di Empoli un corso di formazione per volontari. Formammo dieci persone: operatori preparati per raccogliere le richieste di aiuto delle persone affette da gioco d’azzardo, o dei loro familiari. Volontari in grado di dare risposte, di fornire consigli, di indirizzare verso un percorso per uscire dal tunnel".
Come siete organizzati?
"Una volta formati questi soggetti aprimmo cinque sportelli di ascolto sul territorio, nei Comuni del Valdarno. Poi, però, con il Covid questa esperienza diretta dovette cessare. Lasciammo però una linea dedicata ancora attiva. Inoltre questi operatori hanno dato vita all’esperienza dei gruppi di mutuo-auto aiuto contro la dipendenza dal gioco d’azzardo patologico che hanno lo scopo di aiutare chi direttamente o indirettamente, in veste di familiare o amico di un giocatore, è colpito dalle conseguenze devastanti di questa patologia. Nella nostra sede c’è una stanza dedicata dove due volte al mese il gruppo si riunisce: smettere non è facile e il famoso detto “smetto quando voglio” diventa realizzabile solo dopo aver ammesso l’esistenza del problema e aver consapevolmente scelto i modi tramite cui lo si può gestire".
C’è partecipazione?
"Si parla di 12-15 soggetti che partecipano alle sessioni".
Ricevete richieste costantemente dal territorio?
"Non molte a dire la verità. È molto più facile che la richiesta arrivi da persone che vivono fuori zona, le persone hanno timore di esporre queste problematiche in un contesto dove possono essere conosciute".
La Fondazione è attiva su molti altri fronti?
"La nostra sede è un punto di riferimento per molte attività, per giovani, per anziani, abbiamo la sede dell’Auser, quella del fotoclub, corsi e laboratori per bambini e un forte impegno sul fronte dei diritti umani nel Valdarno. Su questo aspetto collaboriamo strettamente con il movimento Shalom".