di Irene Puccioni
EMPOLI
Nonostante l’incentivo economico, di cui ha anche beneficiato, ha deciso di andarsene. Di cambiare vita professionale, benché quella di medico di medicina d’urgenza sia sempre stata la sua vocazione. Dopo quindici anni di 118 e dodici di pronto soccorso al San Giuseppe di Empoli, Damiano (nome di fantasia per tutelare la privacy del medico, ndr), ha deciso di trasferire le proprie competenze nella medicina territoriale, come dottore di famiglia.
È stata una scelta sofferta e perché ha deciso di farla?
"Non l’ho fatta a cuor leggero, ma è stata inevitabile. Non c’è un motivo preciso, ma la somma di tante ragioni e troppi problemi: eravamo sempre in carenza di personale e ogni volta che lo facevamo presente ci veniva risposto “bisogna arrangiarsi“. Come i miei colleghi, saltavo i riposi e i turni di lavoro erano sempre più massacranti. Non c’è mai stata la volontà concreta di risolvere la situazione".
Neppure dei soldi in più in busta paga l’hanno convinta a rimanere?
"Le ore di attività aggiuntiva risultano in busta paga come attività libero professionale e quindi tassate. Inoltre c’è l’obbligo di versare una quota alla Fondazione Enpam. Alla fine, dei 5mila euro in più resta veramente poco. E comunque mi faccia dire una cosa...".
Prego
"La maggior parte dell’attività aggiuntiva non l’ho mai fatta per i soldi, ma per coprire i buchi nei turni, quindi per dovere e responsabilità professionale. In 12 anni i ritmi di lavoro sono raddoppiati. Sono entrato in servizio che eravamo 6 medici al mattino, 6 nel pomeriggio e 3 di notte. Alla fine eravamo ridotti all’osso con richieste sempre maggiori. Anche sugli accessi impropri non è mai stato fatto niente. Anzi, ci dicevano che dovevamo vederli entro certi termini. Era sempre una corsa".
Sente che avrebbe potuto dare ancora molto al pronto soccorso di Empoli?
"Credo di essere un buon medico. E in tanti anni di servizio nell’emergenza urgenza sono stato anche artefice di qualche miracolo. Mi ricordo di una paziente di 45 anni che entrò in sala rossa con il cuore in fibrillazione. Era spacciata, ma con i colleghi iniziammo la rianimazione e riuscì a riprendersi. Quando ero al 118, invece, andammo su un codice rosso: una giovane mamma aveva tentato di togliersi la vita impiccandosi nella doccia. Sembrava non ci fosse più nulla da fare, invece con il collega ci siamo detti “proviamoci“: il cuore ripartì, fu trasferita in terapia intensiva e si è salvata. Come sanitario rifiuti di vedere certe cose. Noi lottiamo per salvare le vite e trovarsi davanti persone che cercano di farsi del male è inaccettabile".
Ha dovuto affrontare anche dei rischi?
"Una volta ho rischiato di prendere una stampante laser in faccia da un paziente su di giri. I soggetti più pericolosi sono quelli con problemi di dipendenza da alcol o droghe. In due altre circostanze ho avuto davvero paura. Accadde quando prese fuoco il furgone dei farmaci fuori dal pronto soccorso e le fiamme arrivarono alte fino al secondo piano. Entrò fumo nei locali ed io, che ero il referente in quel momento, dovetti organizzare l’evacuazione. L’altro fu un incidente stradale con l’auto che aveva preso fuoco. Nell’abitacolo c’erano due persone. Una era già deceduta, l’altra era viva, ma quando ci avvicinammo esplose il cofano. Riuscimmo a rompere il finestrino laterale, a estrarre la persona e quindi a salvarla".
Che cosa pensa della sua professione?
"Se è vero che un medico è colui che mette a disposizione la propria vita per la salute degli altri, il medico d’emergenza è colui che sceglie di lottare quotidianamente corpo a corpo con la morte ben sapendo di avere armi meno valide di essa".