REDAZIONE EMPOLI

Empoli-Prato, sull’abbigliamento è sempre derby

Ma se si guarda ai dati delle merci che vanno fuori Italia, si scopre che il nostro distretto delle confezioni è il più grande della Toscana

In un fazzoletto di terra, se si considerano le ‘larghe’ distanze della moda quando si parla di export, si affrontano, tra Empoli e Prato, due modelli di integrazione della comunità cinese: il tutto all’insegna del cucire.

Da noi gli orientali hanno capito velocemente che la produzione di abiti faceva al caso loro: una confezione si tira su, lo sapevano anche i nostri nonni che hanno dato vita all’industrializzazione dell’impermeabile, con pochi soldi e naturalmente con tanto lavoro, anche degli imprenditori. Se proprio non vogliamo usare l’immagine del lavoro a domicilio, pensiamo che già con una cinquantina di macchine da cucire e qualche persona esperta che sorveglia, magari in un capannone lasciato vuoto dalle crisi ricorrenti che hanno falcidiato la nostra industria, l’impresa è fatta. Dopo un po’ di tempo gli immigrati dal Dragone si sono talvolta resi autonomi dai committenti italiani, affacciandosi sul mercato.

A Prato, invece, i cinesi si sono trovati di fronte a una sorta di terra promessa: capannoni dismessi che i proprietari erano ansiosi di affittare e tanta manodopera (i connazionali) disponibile. Nel caso pratese è come se ci fosse stata una divisione del lavoro: gli italiani hanno continuato a lavorare nel tessile, con una prevalenza di piccole imprese che realizzano parte della produzione, mentre gli orientali, anche per effetto del minor costo dell’allestimento di una confezione come detto , si sono impegnati nella produzione di abiti.

E così, se si guarda ai dati delle esportazioni, si scopre che il distretto della moda (confezioni) dell’Empolese è il più grande della Toscana, visto che i cinesi-pratesi hanno numeri molto inferiori a quelli di casa nostra, e che il distretto della pelletteria di Firenze, un vero gigante che significa anche la Piana e Scandicci, tecnicamente fa cose diverse dagli abiti in tessuto.

Sulla presenza imprenditoriale cinese grava però la questione del tipo di lavoro. Basta avere per vicino di casa una ‘catenina’ cinese per rendersi conto, in base al rumore a tutte le ore, che il lavoro, se non è 24 ore su 24, poco ci manca. E questo significa anche una forma di concorrenza sleale, perché decisamente oltre le regole, nei confronti delle aziende di italiani (e dei loro lavoratori) che non si ‘servono’ dai cinesi.

B.B.