Empolese Valdelsa, 8 marzo 2024 – Si riunivano spesso in piccoli gruppi, un po’ per farsi compagnia, un po’ per alleviare i disagi di un lavoro duro. Quello delle fiascaie, simbolo di una tradizione di lavoro a domicilio molto diffusa in passato nell’Empolese Valdelsa (in particolare a Castelfiorentino e a Empoli, dove esistevano delle vetrerie), è un mestiere che non c’è più. Ma c’è chi ancora ne custodisce la memoria e i saperi. Leonetta Masini di Castelfiorentino, 92 anni il prossimo mese di giugno, è una delle ultime rappresentanti di questa antica arte. Il fiasco rivestito era infatti il risultato di un’abilità manuale non comune e di ore di lavoro in un “ambiente malsano, pieno di animali e insetti di ogni tipo”.

“Ho iniziato a impagliare i fiaschi a 14 anni per aiutare la mamma: era lei la vera fiascaia – ricorda l’ex artigiana – Si lavorava a domicilio, in mezzo all’umidità e con le dita sempre incerottate". Il rivestimento esterno della bottiglia di vetro avveniva intrecciando, con l’aiuto di grossi aghi, della fibra di erba palustre essiccata, detta “sala“ (più larga), mentre all’interno veniva utilizzato il “salicchio“ (più sottile). Le strisce vegetali era tanto resistenti quanto taglienti e per lavorarle meglio venivano precedentemente bagnate. "C’è chi faceva un rivestimento classico come io e mia mamma e chi invece faceva il ’fino’ – ricorda l’ex fiascaia –. Queste donne era molto ricercate e anche pagate di più. Intrecciavano fili colorati, quattro per fiasco, e anche la base, il ’culo’ del fiasco, era più elaborata: loro erano delle vere artiste". Chi aveva acquisito il mestiere riusciva a rivestire fino a venti fiaschi al giorno, ovvero un ’barile’. Le fiascaie partivano alle 4 del mattino con il carretto e andavano alla "fabbrica" (la vetreria in via Cesare Battisti) a ritirare tre barili a testa (60 fiaschi) e una volta rivestiti ripartivano, sempre all’alba, con il carico verso la fabbrica: lasciavano il prodotto finito e prendevano i nuovi fiaschi ’nudi’.
“Mia mamma Eugenia ha fatto la fiascaia per una ventina di anni – spiega la figlia – Per la nostra famiglia era un’entrata aggiuntiva, ma per tutte quelle donne vedove o sole questo mestiere rappresentava il pane quotidiano. È stato un lavoro che ha dato tanto alle famiglie dell’epoca, ma molto poco retribuito". In casa, Leonetta Masini conserva ancora gli strumenti di quell’antica arte. "Ho ancora l’agone che utilizzavo per impagliare e qualche fiasco rivestito. Quel lavoro però a me non piaceva molto - confessa - L’ho imparato bene, ma poi nella vita ho fatto altro. Sono andata a imparare l’arte del cucito perché volevo diventare una sarta. Grazie alla mia insegnante fui assunta in una confezione insieme alle altre alunne del corso. Ho lavorato sia all’interno della fabbrica che a domicilio nei periodi in cui ero in gravidanza. Poi ho aperto una merceria che ho gestito fino alla pensione".
Ciò che ha appreso nella sua pre adolescenza Leonetta Masini non l’ha mai dimenticato e domenica, in occasione dell’inaugurazione della mostra a Castelfiorentino che ricorda quel mondo che non c’è più, riprenderà in mano sala e ago e mostrerà ai presenti come si impagliavano i fiaschi: un’occasione unica per il pubblico, un concentrato di ricordi ed emozioni per l’ex fiascaia.