Firenze, 16 settembre 2024 - "Il cinema è la vita senza le parti noiose", rispondeva Alfred Hitchcock nella celebre intervista con François Truffaut. Ma è davvero così? A distanza di trent'anni dal suo ultimo film, "Al di là delle nuvole" - girato non casualmente con un altro mito come Wim Wenders - il cinema di Michelangelo Antonioni conserva la sua forza visiva fatta di paesaggi misteriosi e silenzi enigmatici, dialoghi rarefatti e domande senza risposta. Quello che il maestro del brivido risolveva con un taglio sapiente di montaggio, per il regista ferrarese è l'essenza stessa della settima arte: l'attesa, l'incomunicabilità - emotiva e conoscitiva - la natura inerte e impassibile, la visione - irraggiungibile - e lo sguardo, inesorabilmente parziale, frammentato, soggettivo.
Anticommerciale - famosa la battuta di Vittorio Gasmann ne "Il sorpasso" di Dino Risi: "L'eclisse? Bel regista, bel film...Io ci ho dormito, 'na bella pennica!" - e anticonformista - girava con interminabili piani sequenza e campi lunghissimi in tempi di commedia all'italiana - Antonioni è stato amato e detestato, ha ricevuto una carrellata sconfinata di premi - la Palma d'Oro per "Blow up", il Leone d'Oro per "Deserto rosso", il Leone d'Oro e l'Oscar alla carriera, tra gli altri - e ripercorrere oggi la sua intensa e profonda filmografia - come prova a fare il Cinema La Compagnia ogni lunedì a partire da stasera fino al 23 dicembre - è l'omaggio sentito al suo stile innovativo e originale, estraneo ad ogni moda, e quindi unico e inconfondibile.
Dall'esordio folgorante nel 1950 con il noir di ambientazione borghese "Cronaca di un amore", con la sua prima musa Lucia Bosè, all'insuccesso de "La signora senza camelie" - ancora con la Bosè come protagonista - fino al Leone d'Argento nel 1955 per "Le amiche", liberamente ispirato al romanzo "Tra donne sole" di Cesare Pavese, appare già evidente quanto la "crisi dei sentimenti" raccontata da Antonioni nelle sue storie segnasse un punto di svolta rispetto alla narrativa neorealista dominante all'epoca, come testimonia anche il successivo "Il grido", dove un operaio mollato dall'amante si perde con la figlia tra distese vuote e sterminate immerse nella fitta nebbia padana, sino alle estreme conseguenze: la critica marxista non apprezzò.
Poetica che divenne chiarissima all'inizio degli anni Sessanta, con la famosa "trilogia dell'incomunicabilità", alla base del nuovo sodalizio - artistico e sentimentale - con la diva Monica Vitti: alienazione, smarrimento, disagio esistenziale scandiscono in rapida successione "L'avventura", "La notte" e "L'eclisse", culminando nello sperimentale "Il deserto rosso", accesso dai violenti cromatismi della moderna società industriale. Ma quello che colpisce non è la carrellata di attori straordinari - da Marcello Mastroianni a Jeanne Moreau, da Alain Delon a Richard Harris - quanto il coraggio del regista di collocarli spesso in secondo piano, addirittura fuori inquadratura, "imprigionati - scrisse Alain Resnais - nella profondità di campo come mosche in una tela di ragno".
La dialettica tra l'identità fragile e scissa dell'uomo contemporaneo e i paesaggi ormai degradati a luoghi anonimi e indifferenti accompagna Antonioni anche nel suo viaggio anglosassone, dove girerà tre dei suoi film più acclamati da critica e pubblico: "Blow up" (1966), con il fotografo interpretato da David Hemmings costretto ad inseguire assassini e palline da tennis - vere o presunte - nella Swinging London di Jane Birkin e Vanessa Redgrave, "Zabriskie Point" (1970), la visione esplosiva - in tutti i sensi - della Valle della Morte e delle utopie di un'intera generazione sulle note dei Pink Floyd, e "Professione Reporter" (1975), con Maria Schneider e Jack Nicholson, impegnato nel ruolo di David Locke, giornalista di successo in fuga permanente dalla sua vecchia vita.