Firenze, 8 marzo 2017 - «Sono davvero felice di recuperare le mie radici italiane e di avere l’occasione di ripagare il mio debito con la città di Firenze attraverso le mie opere». Non solo porta un cognome italiano, che viene dal padre italiano originario di Pavia. Ma muove i primi passi nella videoarte proprio a Firenze. In occasione della mostra a Palazzo Strozzi, Bill Viola ricorda insieme alla moglie Kira Perov, direttore esecutivo del Bill Viola Studio e musa ispiratrice, gli anni d’esordio nella città viola. Viola come il suo cognome.
Che sensazione è esporre proprio a Firenze?
«Dopo aver vissuto e lavorato a Firenze negli anni Settanta, non avrei mai immaginato di avere l’onore di realizzare una così grande mostra in un’istituzione così importante come Palazzo Strozzi».
C’è un ricordo particolare di quegli anni Settanta in riva all’Arno?
«E’ il ricordo di un giovane squattrinato e pieno di entusiasmo. Sono arrivato senza troppa passione per l’arte del Rinascimento. Non trovavo quelle sensazione e quei sentimenti che andavo cercando. All’università odiavo storia dell’arte, volevo giocare con i video e con le cineprese. Poi ho visto il David di Michelangelo e quello mi ha davvero lasciato il segno».
Ricorda gli inizi all’Art/tapes/22?
«Certo. Quando sono arrivato a Firenze avevo 23 anni e ho iniziato a lavorare nello studio di Maria Gloria Bicocchi in via Ricasoli: il nell’Art/tapes/22, dove da sempre si è fatta avanguardia. Ho cominciato a creare con loro mettendo a disposizione le mie idee, che venivano poi prodotte dallo studio. E’ stata una stagione assolutamente fervente, perchè ha avuto la possibilità di lavorare al fianco di altri artisti italiani e internazionali. Ognuno era diverso, ma tutti avevamo un punto in comune: eravamo rivolti al futuro, guardavamo avanti, cercavamo di proiettare la nuova arte verso il domani».
E quindi è stato subito grande amore con Firenze?
«Firenze ha avuto un ruolo fondamentale soprattutto dopo il ’95, quando ho realizzato “The Greeting” dalla “Visitazione” del Pontormo, scoprendo l’enorme contenuto emotivo del Rinascimento».
Come furono vissuti quegli anni di contestazione e di manifestazioni di piazza?
«Ero molto concentrato sul mio lavoro e non prendevo parte alle manifestazioni politiche. Anche perché non essendo cittadino italiano, non sentivo come mie quelle battaglie».
C’erano luoghi che amava particolarmente e che l’hanno hanno colpito da un punto di vista artistico?
«Amavo moltissimo trascorrere il tempo nelle chiese e registrare i suoni. A volte sentivo il rumore dell’acqua che scorreva e lo riutilizzavo poi per arricchire e mischiare i vari suoni dei lavori che andavo creando».
Adesso molti vostri lavori necessitano di un gran numero di attori. Come è il rapporto con loro?
«Ho iniziato a lavorare da solo, e poi è divento un gioco d’equipe. Specialmente da quando è arrivata Kira, 35 anni fa, da quel momento in poi abbiamo sempre lavorato insieme. All’inizio il rapporto con gli attori non è stato facile. Ma poi abbiamo trovato un modo di procedere».
Tipo?
«Dopo il provino, parlo con gli attori scelti e ad ognuno di loro pongo delle domande, anche personali, del tipo: sei mai stato lì lì per annegare? Oppure, hai mai avuto un incontro ravvicinato con la morte? Questo per capire cosa provano. A volte gli attori, lavorando con Los Angeles, sono un po’ commerciali e si dimenticano del loro Io interiore. A me invece interessa riportarlo a galla, riscoprire questa voce del profondo».