
Padre Alessandro Greco distribuisce pacchi alimentari ai bisognosi (Cabras/New Photo)
Firenze, 16 maggio 2020 - Francesco ha 49 anni, ciondola per le strade dell’Isolotto stropicciato da un maggio colloso. Sono le sei di pomeriggio e sullo stomaco ha un bicchiere di latte e cinque biscotti. «Quelli alla panna, son boni, capito quali?». Non ha uno spicciolo, nemmeno per un tramezzino. «Poi non saprei nemmeno dove comprarlo, c’è un deserto qui». Francesco, cioè Checco, fino ai primi di marzo lavorava a nero in una trattoria in zona San Gallo. «Un paio di sere la settimana. Sei euro l’ora, a mezzanotte se qualcuno mi dava la mancia uscivo con tre fogli da dieci». Poi saracinesche giù e ora non resta che ciondolare per schiarirsi le idee perché un’idea ci dovrà pur essere per sfangarla.
Ha la voce salda, Francesco. Di quelle voci nostre di periferie, spalancate e ruvide. Mica si scompone. D’altra parte, diceva Curzio Malaparte nei suoi ’Maledetti toscani’, «i fiorentini se ne vanno dall’altro mondo nell’Aldilà, come se andassero di là, in un’altra stanza». Se la crisi azzanna, la testa resta lucida. Niente sceneggiate. «C’è una grande compostezza nelle persone che vengono a chiederci aiuto, niente urla o scenate» dice Alessandro Ghini, responsabile dell’aiuto alimentare della Misericordia che prima del Covid 19 aiutava 540 famiglie diventate più di mille in due mesi. «Da noi vengono pizzaioli, commessi, camerieri. Con gli occhiali neri perché non gli va di farsi vedere. Ci dicono solo “S’ha bisogno, ci date qualcosa“». Sulla porta per loro ci sono latte, pane, carne, biscotti. E anche i pomodori pelati. «E anche trecento uova di cioccolata che ci ha regalato una pasticceria di Gavinana». Dice Ghini che «Firenze è una città grandiosa». «Sa che c’era un’anziana che viveva con cento euro al mese e quando le hanno dato il reddito di cittadinanza ha chiamato e ha detto: “Ora mi sento una signora, quello che davate ora datelo a chi ha bisogno“?». Già il bisogno. A Firenze è arrivato sotto la pelle. Non si vede, si intuisce. La città non schiuma rabbia, piuttosto è attonita. Come chi ha sbattuto la testa su un muro e ha bisogno di un po’ di tempo per raccapezzarsi. Alla Misericordia l’altro giorno è arrivato un ragazzo. Con la famiglia, otto persone, fino a marzo gestiva una struttura di accoglienza.
Ora non lavora nessuno. Ha detto tranquillo: «Son venuto qui da voi, perché ho sentito tanta gente che ha fatto gesti insani, io non vorrei arrivarci». Storie sottotraccia – Firenze non fa teatro – che sono cazzotti alla bocca dello stomaco. Come quella di Vanessa che già prima del Covid campava al limite con qualche lavoretto. Vive in una roulotte alle Piagge. Da quando hanno chiuso i fontanelli pubblici perché la gente ci si poteva infettare «non sa come pulire il sedere al suo bambino». E poi c’è Chiara che alle soglie dei 40 si era fatta mettere la firma sul mutuo dai genitori e il 3 marzo aveva aperto il suo negozio di parrucchiera. Poche acconciature e poi a casa. E ancora Fabio, 45 anni, facchino in un cinque stelle del centro rimasto a casa. Vive dalla mamma ora, i soldi glieli dà lei.
Un amico, Gabriele, ha visto arrivare da qualche ora i primi 230 euro, la cig di marzo. «Menomale che mia moglie fa la portalettere – dice – Certo ci sono le bollette da pagare, quello sì. Si tira la cinghia. Niente pizza, la macchina sta ferma così ci resta la benzina». Francesca Ferrali, collaboratrice del servizio alimentare della Misericordia è netta: «Da noi vengono pellettieri, camerieri, padri di figli in cassa integrazione. Tutta gente perbene che chiede aiuto con grandissima dignità». Una signora che ha perso il posto da commessa l’ha chiamata proprio ieri: «“Sono stata fortunata a trovare lei“, mi ha detto». Sì perché, dice Francesca, che «alla gente basta poco». Una bussola in una bolla di ansie e disagi assortiti. Anche Giuliana Danti, volontaria Caritas dice che «a tutti brillano gli occhi quando li aiutiamo». «Quante volte ci ringraziano, con il cuore in mano». Ringrazia anche Sergio, sull’ottantina, senza moglie e senza più quegli aiuti a nero che dava a una famiglia che gestisce un agriturismo. «Gli diamo il pane e la pastasciutta». Non era pronta Firenze. Non lei, non qui, diamine, che «c’è sempre stato da mangiare per tutti». Eppure, proprio come quando nel 1966 l’Arno giallo e furioso ringhiò e le infradiciò le ginocchia facendole scricchiolare, la città ha fatto forza sulle gambe perché quando si è nei guai non ci si può proprio permettere di perder tempo a frignare. E’ preoccupata Firenze, stordita, ma stringe i denti e si prende a schiaffi per restare lucida. E torna a essere pratica, tosta, generosa. Ha perfino un fiato più dolce, senza darlo a vedere che ci mancherebbe altro. Popolo orgoglioso e testardo. «Se si sta calmi Firenze ne sorte fori». A patto di affidarsi ciecamente al suo Dna. Aveva due secchi in mano per raccogliere l’acqua fangosa dallo scantinato, la mattina del 4 novembre, un negoziante del centro storico. Chiese la moglie: «Ma che ce la fai a svuotarlo in una volta sola?». «E se un ce la fo vorrà dir che fo un altro giro» rispose lui.