Giovanni
Pallanti
La scomparsa a ottantadue anni dell’avvocato Nino Filastò è un impoverimento etico professionale per il Foro di Firenze.
Ci sono, ovviamente, avvocati altrettanto bravi ma la finezza intellettuale di Filastò, come ha ricordato La Nazione il giorno dopo la sua morte, era davvero unica.
Figlio di un altro famoso avvocato, Pasquale Filastò, di origine calabrese, già consigliere comunale del Pci in Palazzo Vecchio, Nino era diventato un progressista democratico e considerava le ideologie come gabbie del libero pensiero, di cui non era opportuno rimanere prigionieri.
Protagonista di grandi processi, come quello sui ’compagni di merende’ del cosiddetto Mostro di Firenze e sulla tragedia del traghetto Moby Prince al largo del porto di Livorno.
L’avvocato Filastò seguiva delle piste investigative diverse da quelle ufficiali dei pubblici ministeri e degli investigatori, che non sono mai state confutate: la sua intelligenza lo portava ad intuire responsabilità che il ’potere’ evitava di approfondire con adeguate indagini.
Scrittore di successo di libri gialli, soprattutto nel mercato tedesco, l’avvocato aveva scritto un libro sui delitti delle coppiette che insanguinarono le colline fiorentine negli anni Ottanta.
Filastò invitò a presentarlo, in una grande libreria del centro della città, Franco Camarlinghi e il sottoscritto. Quella fu una delle ultime sue apparizioni pubbliche.
In quella circostanza erano presenti decine di avvocati e il presidente della Corte di appello, Francesco Ferri, che condivise molti dubbi sull’inchiesta del Mostro di Firenze. Come pensava Filastò. Lascia un vuoto difficilmente colmabile.